mercoledì 29 dicembre 2010

Zuppa di patate e spunzali

Siamo tanti.
Pochi legnetti per questo fuoco. Ci costringe a stare tutti vicini.

C’è anche la famiglia del mugnaio stasera. Quello che fa il gentile con tutti e poi quando gli porti il grano a macinare, se ne prende la metà. È giusto dice lui. Assassino, lo chiama mio padre. Ma stasera ridono insieme. Così si fa in pubblico. Però io quando la sera mangio erbe di campagna lesse e piango dalla fame, non capisco. Come si fa a ridere con chi ti affama?

Pazienza. Mondo era e mondo sarà.

Sono stanca stasera. Stamani mi sono svegliata un’ora davanti al sole. Mi sono vestita. Ho preso la bicicletta per attraversare la tramontana fino alla campagna. Sotto gli olivi eravamo una ventina di donne. Tutte carponi a cogliere olive. E le mani gelavano nel freddo. Pippi stava là. Cantava. E lavorava.

C’è anche il frate stasera. E con la scusa del fuoco che muore, si avvicina. Quello si che è un maledetto. Ha le mani più grasse che abbia mai visto. E le insinua ovunque quando mio padre non guarda. Rispetto per la chiesa, mi hanno insegnato. E io me ne sto zitta. Piango dentro. E lui racconta storie di santi. Racconta storie di virtù. Ammonisce tutti sul vivere in grazia di Dio.Anche il mio pianto è stanco. Le lacrime non ce la fanno ad uscire, cadono dentro. Pazienza. Mondo era e mondo sarà.

Pippi stava là e lavorava imprecando il padrone. E le mie mani si paralizzavano. Ci hanno insegnato a mettere una pietra nel fuoco fino a farla diventare calda. Poi la copriamo con un fazzoletto e la teniamo nella mano destra. E raccogliamo con la sinistra. Fino a che non si blocca anche lei. Allora rimettiamo la pietra nel fuoco, la avvolgiamo nel fazzoletto e la teniamo con la mano sinistra. E raccogliamo con la destra. Cantando. Fino a quando il sole non cala.

Sono proprio stanca. Avrei voglia di cantare. Quello so fare. Ma stasera si raccontano storie. Io non so raccontare storie. E resto in silenzio. Mio padre parla adesso. E parla di come lui sia riuscito a rubare mia madre alla sua famiglia che non voleva dargliela. Impreca contro quei genitori che lo avevano ostacolato. Impreca contro tutti quelli che avevano provato ad ostacolare l’amore. Tutti annuiscono. E si fanno delle grasse risate con il mugnaio e il frate che benedice mio padre e lo perdona in nome dell’amore. E intanto mia madre è morta mentre mio padre era all’osteria. Pazienza. Mondo era e mondo sarà.

Poi ha cominciato a piovere e ci siamo riparate nella pagliara. Per consumare il tempo, raccontavamo storie. Mi è venuto da piangere quando ho sentito la storia del re porco. Pensavo: se fosse successo a me? Speravo che un angelo del cielo alla fine lo avrebbe fatto succedere anche a me. Pensavo alle mie sorelle uccise dal porco che si trasforma in principe se lo ami. E pensavo al re porco che sceglieva me. E piangevo. Le mie lacrime erano risate altrui. Quando siamo ritornate fuori per il lavoro, le mie compagne hanno ripreso a cantare sfottendomi. E Pippi sentiva. Ma non cantava più. Io sono brava a cantare e ho detto la mia. Fino a quando non è calato il sole ed il padrone è venuto a sfotterci con la sua misera paga.

Però alla fine così mi piace. Dopo una giornata di lavoro in campagna, adesso raccontano storie. E io mi riposo. Sono solo parole, mi dico. Non congelano le mani. E mi riposo. E sogno.

Stasera si dice che verrà Pippi. Lui si che sa cantare. Verrà a cantare una serenata. Lo ha confessato il frate nell’orecchio di mio padre. Pippi si che sa cantare. L’ho sentito quella volta alla festa alla chiesa. E con il suo canto mi guardava. E mi carezzava. Ho sentito il suo canto carezzare le mie cosce.

Lui sta per compiere 25 anni e deve sposarsi altrimenti lo multano. Così vuole la legge, mi ha detto. Lui mi vuole. Lo so. Ce lo siamo detti cantando. Ma non è tempo per me. Anzi, non lo è per mio padre. E allora lui questa primavera sposerà mia sorella maggiore. Vorrei imparare la magia per trasformarlo in porco. E così nasconderlo a chi non lo sa amare. Ma non sarà possibile, devo andare in campagna a lavorare. Pazienza ci vuole in amore.

Mondo era e mondo sarà.

Pippi non sta arrivando. Anzi Pippi, non verrà. L’ho visto sulle labbra del frate.

Anche stasera Pippi non verrà. Sono stanca stasera. E qui si continua a parlare. E quando sono stanca il mio corpo non resiste. Santa Lucia, aiutami tu.

Anche la mia voce è stanca. Stanca di parole. Allora canto nella mia bocca la canzone del nostro amore, e le cosce si riscaldano. Mi immagino le sue mani dure cantare l’amore tenero sul mio seno. Mi sento la bocca gonfiarsi dei suoi baci.

Avrei voglia di spogliarmi. Qui. Adesso. Pippi dove sei? Ho voglia di Pippi. Ho voglia di sentire la sua voce. Ho voglia di ballare la sua voce fino a stancarmi e cadere. E poi in mezzo alle sue braccia mi vorrei riposare.

Chi mai rimpiangerà questi tempi? Chi mai rimpiangerà questa storia? Chi mai canterà questi canti?

Mondo era e mondo sarà.

Il frate ha riposto le mani, il mugnaio la falsità e mio padre le parole. È ora di andare a letto.

Domani in mezzo alla tramontana ci sono altre olive da raccogliere. Ed altri sogni da cantare.

Mondo era e mondo sarà.


Ci sono storie che si ripetono di luogo in luogo. Ci sono cucine che risolvono problemi di luogo in luogo. Questa storia viene da un Sud. Io l’avevo già sentita in un Nord così a Nord da vivere da Sud: la Scozia delle Highlands. Terra dove la terra cruda è dura. Terra dove la cucina è stata geniale. Terra di pascoli e non di olivi. Terra di panna e non di olio.

Panna e olio sono il grasso in cucina. In cucina il grasso è il ponte tra i sapori. Pensate alle insalate: tutto connesso dall’olio. Olio e panna sono grassi che connettono i sapori. Ma non per questo il grasso è necessario. Se non si ha l’esigenza di connettere, il grasso non è necessario. In cucina si può avere anche l’esigenza di distinguere. Ieri sera io volevo connettere. Volevo che la patata e lo spunzale non fossero impediti nel loro convivere. Volevo donare loro un ponte.

Questa ricetta viene da un Nord che ho provato a connettere con un Sud. Ho provato a gettare un ponte tra un mio Sud e un mio Nord.

Per 12 persone ho utilizzato 1 kg di patate, 2 litri di brodo di verdura profumato, 10 spunzali, 1 cipolla rossa, 3 gambi di sedano, olio extra vergine e mezzo bicchiere di panna liquida. Innanzitutto ho preparato una terra comune, un luogo che permettesse l’incontro tra la patata e la spunzale. Ho preparato un brodo leggermente profumato di verdura e un battuto di sedano e cipolla. Niente carota.

Ho soffritto il battuto sino al color oro, ne ho fermato la cottura con un poco di brodo e ho aggiunto gli spunzali tagliati a rondelle grossolane facendole insaporire. Altra piccola quantità di brodo a fermare anche questa rosolatura.

Ho aggiunto le patate sbucciate e tagliate a cubetti di circa 1,5 cm per lato. Anche loro hanno voluto insaporirsi del medesimo soffritto per circa 8 minuti. Si aggiunge il brodo e si lascia cuocere per altri 30-35 minuti. A cottura terminata, si aggiunge il mezzo bicchiere di panna che sancisce l’unione e la si lascia sedurre il tutto per 5 minuti ancora. Sale per concludere. Non passate il tutto al blender perché in questo modo non migliorereste l’unione. Piuttosto la annientereste in una mediocrità uniforme. Ci pensa l’amido della patata ad addensare. Servite in una scodella con un pizzico di un trito che avrete preparato con rosmarino, nipitella, pepe rosa e semi di papavero.

È un piatto semplice, invernale, raro e per chi non sta seduto troppo a lungo. Ci vogliono gambe per piatti come questo.

Buon appetito.

Con sapore,

Biso

martedì 14 dicembre 2010

ingredienti base - la fame

Hai mai visto la faccia di un uomo che ha fame? Gli occhi sporgono, si tendono. Il volto viene come risucchiato dal movimento degli occhi e si mette in secondo piano. E gli occhi, lasciati soli, si gettano verso il vuoto da cui aspettano cibo.

Hai mai avuto fame?
Hai mai avuto fame per più di un’ora?
Hai mai avuto fame per giorni? Senza tregua. Senza interruzione. Con lo stomaco che collassa?
Con ulcere che ti segnano la pelle come crateri? Con le gambe che non ti sostengono più? Con le gengive che lacrimano sangue? Con il cervello che si fa stopposo?

Hai mai avuto un figlio che piange per la fame?
Hai mai visto gli occhi sporgenti di tuo figlio implorare cibo?
Hai mai dovuto rispondere con il silenzio agli occhi di tuo figlio che implorano cibo?
Ti sei mai sentito crollare per non avere abbastanza pane da far smettere tuo figlio di piangere?
Il più integro degli uomini ne ha abbastanza della sua integrità, se vede i propri figli piangere di fame per mesi e mesi.

E adesso chi non ha mai avuto fame, mi vorrebbe chiudere in prigione. Perché ho rubato pane. È la giustizia mi dicono. E la giustizia è l’ordine che tiene in vita la società: ne va del bene di tutti, mi dicono.
L’affamato se ne infischia di questa giustizia e di questa società. C’è una sola giustizia per l’affamato: il pane.
E se questo è un crimine, pazienza! Se devo comunque crepare, allora è lo stesso se crepo di fame o in una cella.

Se non hai mai provato la fame, quella lunga, quella che persiste. Quella a cui non vedi soluzione. Se non l’hai mai provata, allora avrai sicuramente una morale. Una giustizia di altri. E dei costumi. E delle regole ferree. Imposte.

Se non hai mai provato la fame, quella lunga, quella che persiste. Quella a cui non vedi soluzione. Se non l’hai mai provata, allora sarai sicuramente uno schiavo. Sarai sicuramente fiero di sentirti libero, garantito dalla giustizia di altri.

L’affamato no. L’affamato è disposto a qualsiasi cosa. Mi si può biasimare per questo?
Chi ha provato la fame lo sa: la fame risveglia dalle imposizioni. I costumi e la morale sono pensieri da sazi.

Quando hai fame non puoi fare lo schizzinoso. Quando hai fame, quando hai il corpo che si dissolve in diarrea, non c’è disgusto nella carne del topo. Non c’è disgusto nel cercare bulbi di tulipano da cucinare; non c’è disgusto nel combattere il cibo con un cane; non c’è disgusto nel rovistare nei bidoni di spazzatura. Non c’è religione che ti faccia ripugnare un cibo. Quando hai fame non c’è costume. Onnivoro, vegetariano, vegano, crudista, praticante religioso, sono distinzioni da sazi.

Quando hai fame l’anima prende a perdersi in un viaggiare sconclusionato, confuso e spaesato. Ma non c’è tempo per l’oblio, perché subito arrivano le rinfrescanti e semplici parole del corpo: ho fame. E la fame tiene svegli. La fame si fa amica del corpo. Quando hai fame lo senti tutto il corpo: senti l’odore del tuo fiato; senti lo stomaco con le sue convulsioni; senti il cuore scandire sordo l’attesa; senti l’umore del tuo fegato impregnarti il palato; senti i muscoli che si contraggono fibra dopo fibra; senti le ossa.

Nella testa dell’affamato i pensieri che si contorcono come lo stomaco, si dissolvono nello stritolare della mascella. Tutto il vorticare e la confusione si dissolve nei liquidi della bocca che azzanna il boccone di cibo. Tutto l’oblio si dissolve nel corpo. Il pensiero cola via tra le fauci.

Ho visto persone affamate essere “giuste” di una giustizia di altri. E le ho viste morire di fame. Ho visto persone affamate morire per non trasgredire. Io ho preferito vivere. No, non mi biasimo per questo. No, per l’affamato c’è una sola giustizia cui aspirare: il pane.

La fame ritorna l’animalità. La fame rade al suolo ogni pregiudizio. Ogni costume. Ogni imposizione. C’è un solo giudizio per l’affamato: il pane.

La fame si fa amica del buon senso.
Ma la fame si fa anche nemici. La fame si allea con chi impone. La fame è pasciuta dall’ignoranza. Per il povero la cultura è come il cibo: se ne vuole un po’ di più, deve rubarla.

E siccome la fame tiene svegli, la giustizia, i governanti, la vogliono controllare.
E allora ogni tanto mangi. A questo l’affamato deve di poter continuare a soffrire la fame. A questo il povero deve il frastuono che lo fa rimanere schiavo. Questi signori ci sfamano abbastanza da permetterci di rimanere affamati. E gli occhi cominciano a riperdersi nel vuoto aspettando la nuova distribuzione del pane. Aspettando. Il povero dimentica. Il povero dimentica il povero se sta tra i ricchi: è così che vanno le cose.

No, non mi biasimo per questo. E non mi farò di certo imprigionare.
Vagherò, clandestino, in cerca di giustizia: in cerca di pane.
Vagherò, fiducioso e clandestino, in cerca di giustizia: in cerca di pane e autodeterminazione.
A costo di non essere integro. A costo di essere violento.

No, non mi biasimo per questo. Questa violenza, la violenza di chi si muove perché ha fame, non è impregnata di odio. L'amore che questa violenza contiene è altrettanto brutale della violenza stessa, perché non è un amore compiacente o contemplativo, ma un amore di azione e di trasformazione.

No, non mi biasimo per questo

Voglio pane e statuto.



Quando ho avuto la fortuna di penare per la fame il sogno era fresco e semplice. Quando la fame mi teneva sveglio tra le cime delle Ande, il desiderio non era pasta, carne, dolci. Il mio sognare era pane profumato e pomodoro maturo strusciato. E un giro di olio extravergine sporcato col sale. Quando la fame tra freddo e convulsioni mi ha nuovamente donato il corpo, ho capito la giustizia che chiede pane. La giustizia che c’è nel pretendere pane.

Con sapore,
Biso

sabato 13 novembre 2010

Risotto profumato ai finocchi

«Partire, ritornare»
Perché festeggiare il compleanno?


Discendo da quel giorno in cui gli dei scesero per l’ultima volta a banchettare con gli uomini.
Sono del sangue dello stesso sangue che generò «colui che è come vuole essere». Discendo dalla stessa stirpe di Dioniso. Sono dovuta nascere regina il giorno in cui mio marito è morto. Morto di festeggiamenti. Prima di quel giorno, onoravo gli dei e le stelle tacevano.

Adesso mi si accusa di pirateria.
Mi si accusa di pirateria e mi si costringe all’esilio.

Si accusa me di pirateria. Come se avessi potuto offrire un’altra scelta.
Hanno mai visto la nostra terra questi pasciuti accusatori? Hanno mai visto la roccia durissima
votarsi precipitosamente al mare? Hanno mai sentito la spinta feroce con cui questa roccia ci incalza? Abbiamo provato a vivere di agricoltura. Abbiamo provato a vivere una vita pacificata con il correre delle stagioni. Ma la roccia ci ha sempre spinto in mare. La roccia incombe. E le stagioni ci hanno concesso pace solo nella navigazione. Sono i venti che hanno in custodia la pacificazione della nostra esistenza. E dovevamo pur vivere. Che colpa c’è nella volontà di sopravvivere? Hanno memoria della fame queste unte pance accusatrici?

Sono qui esiliata tra le montagne di Rhizon per aver voluto difendere almeno la possibilità di sopravvivere delle nostre tribù. Chiusa in una fortezza, ingoiata dalle montagne.

Ingoiata in questa solitudine ho imparato a leggere i percorsi delle stelle. Un sacerdote sordo mi ha indicato la voce delle stelle. Le stelle non tacciono più per chi diviene sordo.

In una notte che è arrivata in ritardo, le stelle mi hanno parlato.
Con un movimento silenzioso, mi hanno chiesto di rendere giustizia al giorno della mia nascita.

Ma che senso ha onorare il giorno della mia nascita?
Ho scrutato le stelle con orecchie senza dèi. E mi hanno indicato il senso.
Mi hanno indicato la strada del ritornare per ripartire. È il ripetere che produce differenza.

Quel giorno sono nata e con me è nato un mondo: il mondo nasce per ognuno che nasce al mondo.
E sono partita per quel mondo. E l’ho scoperto. Capita che ci si meravigli per dei fiori, per dei volti, per delle grate, per dei profumi, per delle presenze, per dei sorrisi, per dei sapori. Ci si meraviglia per degli occhi, per delle voci, per delle assenze, per dei canti, per delle braccia.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai fiori, ai volti, alle grate, ai profumi, alle presenze, ai sorrisi, ai sapori, agli occhi, alle assenze, alle voci, ai canti, alle braccia.
Ed allora sono dovuta ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, volti, grate e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta del corpo. Esplorare il mio. Sentirne i movimenti. I sussulti. I desideri. Scoprire che le passioni hanno corpo. Sono corpo. Sono corpo che desidera. Corpo che desidera altri corpi. Ed allora ripartire per esplorare altri corpi. Navigarne le pieghe. Percepirne le vibrazioni. Assecondarne i movimenti. Odorarne il calore. Amarne l’esistenza. E gioire dell’essere corpo tra corpi. E gioire di essere della stessa stirpe della terra e delle stelle.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai corpi, alle carezze, alle stelle, alla terra, alla pioggia, all’abbondanza.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, volti, corpi e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta del pensiero. Cominciare a navigare nell’alfabeto. Appropriarmene. Assemblarne gli elementi e capire che questo mette in risonanza i corpi. Scoprire la comunicazione. Fare scorribande tra i corpi razziando parole. Appropriarmene. Gettarmi nella moltitudine, affamata di comunicazione. E poi scoprire la solitudine. E scoprire che la solitudine non è silenzio. Scoprire che nella solitudine la comunicazione si fa pensiero. Si fa dialogo con il mondo. Si fa luce tra i corpi. Scoprire che il pensiero è la lingua del “tra i corpi”. Questo è il dono che la mia stirpe ha fatto all’umanità: con il pensiero l’uomo è restituito alla capacità di incontrarsi con il sacro senza bisogno degli dei. E le stelle rifulgono.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi al pensiero, alla comunicazione, alla voce che risuona tra i corpi, al sacro. Sono stata così pazza da credere agli dei.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, corpi, pensiero e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta dei sentimenti. Dibattermi. Sudare. Affliggermi. Rimpiangere e soffrire. Gioire, gridare e commuovermi. Desiderare, odiare, cercare, pesare, sognare, grugnire, galleggiare, sprofondare, attendere, donare. Domandare, dubitare e credere. Grondare e concepire. Alleviare. Vendicare. Poi fermarmi. E scoprire. Scoprire che i sentimenti sono il corpo come pensiero. Sono il pensiero come corpo. Sono la densità dell’esistenza. Sono la durata che condensa. Sono il trascorrere. Sono relazione. Sono la capacità di stare “tra” senza includere né escludere. Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai sentimenti. Così pazza da dominare col pensiero i sentimenti; con i sentimenti il corpo; con il corpo i sentimenti; con i sentimenti il pensiero. Così pazza da assuefarmi alla relazione. Così pazza da mutilarmi il corpo con il pensiero. Così pazza da trasformare la durata in tempo. Così pazza da escludermi dall’esistenza.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi ritornare
E poi partire.
Per ritornare.
E partire.

Perché nascere allora?
Le stelle dicono che nasciamo perché abbiamo bisogno di poesia.

Perché abbiamo bisogno di poesia.

In una notte arrivata in ritardo, le stelle mi hanno svelato il segreto che ha mantenuto potenti gli dei. Mi hanno raccontato la menzogna su cui si è fondato il loro potere. È la menzogna che la mia stirpe a partire da Cadmo e Armonia ha sempre voluto smascherare. È toccato a me approdare. È toccato a me leggere sulle labbra delle stelle che non si nasce perché così vuole il destino.
Non si è mai destinati a nascere.
Nasce solo chi ha bisogno di poesia.

Solo chi ha bisogno di poesia.

Nascere è venire al mondo di un mondo il cui districarsi è poesia.
Solo chi ha bisogno di poesia ha bisogno di nascere.
Vivere la vita è la necessità di esperirsi come atto poetico.
Ed io, Teuta, regina degli Illiri, ho bisogno di poesia.
Ho bisogno di sentimenti, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze, di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue.
Io, Teuta, ho bisogno di poesia.
Questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni, che dà colori nuovi.
Io, Teuta della stirpe di Dioniso che è «colui che è come vuole essere», ho bisogno di poesia.
E per ricordarmelo devo ritornare a quando il mondo è nato con me che venivo al mondo.

Vivere è un atto poetico.
Da ripetere.

Buon compleanno.
A tutti.



Nel menù di quella sera, il risotto si dava per il pensiero. Una zuppa di farro per il corpo. E lasagna di foglie di rapa per il sentimento.


Il fatto è che quando si festeggia, si festeggia. E non si può essere pochi quando la festa vuole essere condivisione, musica e risate.
Quindi oggi, ricetta per 30 persone.
Ci vuole un bel po’ di riso Carnaroli: all’incirca 2 Kg. E ci vuole anche una bella padella in cui cucinarlo. Il risotto è un rito. Il risotto è una vera e propria soddisfazione per ogni cuoco che si senta artigiano. C’è molto lavoro. Lavoro di preparazione, di cesello, di costanza, di attenzione e di dedizione. Ogni dettaglio fa la differenza. Il dettaglio fa il risotto.
E come il riso, anche la bellezza ama riposarsi nei dettagli.
Ed allora cominciamo a preparare i dettagli.

Dettaglio numero 1: il brodo.
Sarà un brodo di verdura quello che fascerà cremosamente il riso. Non vi dico il procedimento perché tanto ognuno ha il suo. Vi dico solo: non lo fate arrogante. Prediligere i profumi è il dettaglio in questo brodo.

Dettaglio numero 2: i finocchi.
Trovateli belli, che non vuol necessariamente dire grandi. Ce ne vogliono almeno 4 Kg. Non gettate via niente. Puliteli, separate le guaine esterne dal cuore. Mettete da parte anche i gambi. Tagliate i cuori a julienne non troppo fine.
Con le guaine esterne e i gambi prepareremo una crema. Ecco l’altro piccolo dettaglio da curare. Il finocchio deve diffondersi ovunque. Dobbiamo cuocere a vapore le guaine esterne e i gambi. Una volta cotte passare al frullatore con un filo di olio extravergine di oliva. Oggi, che è Novembre, ho con me un meraviglioso olio nuovo del Frantoio Sociale di Spello: un’esplosione erbacea di freschezza piccante. Lo guardi scivolare dall’oliera mentre trasporta questo suo color oro smeraldo erbaceo, e ne capisci l’onestà. È un dettaglio questo affidato alla stagione. Ogni stagione regala dettagli.

Dettaglio 3: aglio o cipolla?
Scalogno. Prendete 5 scalogni e tritateli.

Dettaglio 4: i semi di finocchio.
Procuratevi una manciata di semi (che poi semi non sono) di finocchio selvatico. In alternativa vanno bene pure i normali semi (e questi sono veramente semi) di finocchio coltivato.

Dettaglio 5: delle belle arance biologiche.
Arance dalla scorza integra e profumata. E per adesso lasciatele lì da parte a dare colore.


È giunto il momento del raccoglimento, della concentrazione e dell’intensità.
Soffriggere leggermente lo scalogno e i semi di finocchio. Lo scalogno deve diventare lucido, quasi trasparente. Concentratevi perché se soffriggete troppo lo scalogno, questo sovrasterà la delicatezza del finocchio. A scalogno trasparente, aggiungete i finocchi tagliati a julienne e lasciate cuocere per 9 minuti. Aggiungete il riso che si tosterà e insaporirà nel soffritto.
Uno, massimo due minuti e poi, brodo. Brodo bollente. Da adesso comincia la cottura del riso. Cosa dice la confezione? 17 minuti.
Ecco saranno 17 minuti di cure continue. Cominciate con una bella quantità di brodo. Abbiate cura di mescolare di tanto in tanto in modo che ogni chicco sia bagnato dal brodo. Aggiungere sempre brodo. Adeguate la quantità di brodo che aggiungete allo stato di cottura del riso. È qui che si concretizza il dettaglio della cremosità. C’è sempre la possibilità di camuffare l’eventuale incuria finale mantecando con del burro. La cremosità si manifesterà comunque. Ma è pur sempre un dettaglio che porterà con sé il sapore di rimedio. È cura il risotto. È solo e soltanto cura. La differenza tra ottenere una minestra di riso, un riso condito o un risotto, sta nella cura.
Cinque minuti prima della fine della cottura, aggiungere la crema di guaine e gambi e continuare a cuocere. Quando il riso sarà al dente, spengere la fiamma, aggiungere una manciata di parmigiano e grattugiare la buccia delle arance. La quantità qui dipende dalle risposte che vi daranno gli occhi e il naso. Non vi scordate mai che è pur sempre un risotto di finocchi. Lasciate mantecare 3 o 4 minuti. Servite ovviamente ben caldo. Io quella sera ho cosparso un po’ di niepitella secca. Ma qui si aprirebbe tutto un altro discorso.

Questo è un piatto per tutti e per nessuno. Ci si deve disporre, si deve rallentare, si deve sostare. Si deve predisporsi alla concentrazione. Al raccoglimento. All’intensità.
È la profumata effimera delicatezza del pensiero che vi si propone come esperienza.
Visto da qui il pensiero non si dà come pesante giumenta che trascina un aratro invasivo. E non si dà nemmeno come addestratore di giumente.
Il pensiero ha profumo e delicatezze. E superficialità. Percorre tra le pieghe l’essere, scoprendone la non profondità. È questa la sua forza e la sua potenza. Il pensiero è un aver cura profumato e delicato. E vuole cura e attenzione anche nell’assaporarlo.

Buon appetito.

Con sapore,
Biso

domenica 10 ottobre 2010

Mercan Dede Peşrev

Mediterraneo. Mediterraneo di civiltà accatastate. Mediterraneo di aromatiche difese. Mediterraneo del contrappunto. Mediterraneo del tempo che ha durate estensibili, a volte poetiche. Mediterraneo mare di molti deserti. Mediterraneo di sole andate che annegano. Mediterraneo di voyeurs che lo consumano. Mediterraneo mercante e contadino. Mediterraneo che si agita migrando. Mediterraneo. Un agitarsi della differenza che produce ritmia, che genera trance. È trance di comunione. Rotea per raccontare la terra al cielo. Una trance che rotea “tra”. Tra cielo e terra. Tra l’uomo e la vita. È roteare per riconciliarsi con la possenza della vita. Mediterraneo è loop che produce orizzonte, che dà contesto. E ci sono individualità che questo contesto piegano e dispiegano.
C’è un piano in cui siamo immersi: piegare e dispiegare questo piano è ciò che il Mediterraneo ha sempre raccontato. E tramandato.
C’è mediterraneo in Mercan Dede.


Mercan Dede ha la struttura turca di un peşrev: un teslim e tre hane. Il teslim sarà crema di peperoni fatta con 1 cipolla rossa, 1 carota e 1 cuore di sedano tritati e soffritti sino al color oro e non di più. Si aggiungono a questo punto 1 Kg di peperoni gialli lavati e privati dei semi e 1 patata pelata. Quando la patata sarà cotta, passare tutto al passaverdure. L’indigesto se ne và con la rotazione. Aggiungere un bicchiere di latte fresco e amalgamare. Diluire con brodo profumato di verdura sino ad ottenere una consistenza vellutata. Lasciate riposare. Adesso dobbiamo pensare alle altre 3 hane: alici salate affumicate, mediterraneo (nelle persone di nepitella e timo freschi) e beyaz peynir (ma va bene anche la feta). Dissalate le alici nel latte con aglio e basilico per pochi minuti e affumicatele in una pentola in cui avrete posto dei legnetti non avvelenati e una griglia rialzata. Date fuoco ai legnetti, ponete le alici sulla griglia e coprite con il coperchio. Il fuoco diventerà fumo che darà terra alle alici. Da adesso la pentola che avete usato avrà solo questa funzione.
Impastate 2 uova con farina di semola e poco cacao amaro. Energia e ritmo necessari. Lasciate riposare tutto, voi compresi. Sminuzzate le alici e amalgamatele con ricotta, beyaz peynir e il mediterraneo. Spianate a strisce larghe un palmo la pasta, poneteci dei mucchietti di ripieno di alici, piegate e tagliate i ravioli a mezza luna aiutandovi con un bicchiere. Chiudeteli con i rebbi della forchetta. Mentre scaldate la crema di peperoni, cuocete i ravioli in acqua bollente. In un piatto servite abbondante crema di peperoni in cui immergerete i ravioli. Un giro di olio extravergine di oliva, una spruzzata di pepe rosa e di mediterraneo. Nello stereo Mercan Dede, la luce soffusa. Niente incensi.
Assaggiate.
E in bocca si avrà un roteare costante di peperoni che si piegherà sulle alici e poi sul beyaz peynir e poi sul mediterraneo per dispiegarsi di nuovo come peperone. E ripiegarsi. E dispiegarsi. Con un mano volta al cielo ed una alla terra.

Le quantità? La trance non si riceve, si conquista sperimentando. È sapienza, non conoscenza. A voi la gioia di sperimentare.

Con sapore
Biso


Pubblicato sul numero 3 di Palascìa. L'informazione migrante

mercoledì 4 agosto 2010

Parmigiana te maranciane scutursata

C’è un’aridità data dall’abito.
Un’aridità dell’abitudine.
C’è una normalità che soffoca.
C’è un abituarsi che fa impazzire.
E c’è da impazzire per togliersi dall’aridità dell’abitudine.

Tradire l’abitudine è mettersi dalla parte della vita.

L’abitudine è il territorio in cui si dà una risposta alle sollecitazioni della vita.
Semplicemente le si tacita.


L’abitudine non è una mediazione tra la crudeltà e l’incanto.
È la loro espulsione dalla vita.

Le parole sono abitudini.
I concetti sono abitudini.
Le note sono abitudini.
La fisica è un’abitudine.
Io è un’abitudine.
Le parole, i concetti, le note, Io, la fisica fanno le nostre mani più ingegnose
ma rendono meno agile il nostro ingegno.


L’abitudine è presunzione di cause e fede in effetti.

L’abitudine si insinua nelle pieghe per distenderle.


Per osmosi il non pensiero attraversa l’abitudine e si insinua nell’uomo.

L’abitudine fissa identità.



E bisogna pur giocare. E bisogna pur non prendersi troppo sul serio. L’unica maniera che conosco per rompere le abitudini è giocare. E quella sera ho giocato. Ho rotto la melanzana di parmigiane. L’ho presa e l’ho smontata mattone per mattone. E mi sono rimasti melanzane, basilico, farina, pomodori, parmigiano e uova.
Ho cacciato fuori le melanzane e il pomodoro dalle uova e dall’olio e li ho messi a nudo. Nudi sul piatto: le melanzane al sapore di melanzane e il pomodoro al sapore di pomodoro. Invece ho vestito il basilico e il parmigiano. Il basilico è ora un’emozione fondente. Avvolgente.
Ho preso i mattoni e li ho raccolti tra tradizione e contemporaneità. Ho guardato le melanzane, la farina e il pomodoro attraverso la maschera della tradizione. Il basilico, le uova e il parmigiano hanno preferito farsi guardare attraverso la contemporaneità.
Ed è sempre un gioco lo stare tra la tradizione e la contemporaneità. È abitudine includere nella tradizione o escludere dalla tradizione. È giocare il danzare tra tradizione e contemporaneità. È consapevole libertà il giocare: rende laboriosa la mano e sveglia l’ingegno.

Per scutursare la parmigiana te maranciane c’è bisogno di 2 melanzane, ½ kg di pomodori maturi, 100g di pesto, 80g di parmigiano grattugiato, 200g di farina di semola, 50 g farina 00, 40 ml di latte, 50 g di burro, 3g di farina di riso, 4 uova.
C’è bisogno di preparare dei ravioli ripieni di melanzane conditi con salsa di pomodoro. Ravioli che vogliono una direzione in cui guardare. Ci vuole una stella che conduca. Ci vuole di preparare un tortino di parmigiano col cuore fondente di basilico.
Si prendono le melanzane, si lavano, si asciugano, si tagliano a metà secondo la lunghezza, si incidono sulla polpa delle linee di coltello e si infornano a 180° fino a quando non risultano morbide. Nel frattempo con 200g di farina di semola si prepara la pasta aggiungendo solo acqua. E la si lascia riposare in attesa delle melanzane. Se c’è ancora tempo si prende basilico, parmigiano e olio extravergine di oliva e si preparano i 100g di pesto. Altrimenti, se le melanzane reclamano attenzione, lasceremo un po’ di tempo per il pesto più tardi. A me è avanzato abbastanza tempo per dare spazio al ricordo di Donatella che portava la farina di semola di sua nonna appena macinata raccolta in una federa d cuscino.
Già perché la farina appena macinata si offre in federe di cuscino di lino. Le federe vanno poi restituite. Ne va della comunità.
Tolte le melanzane dal forno ho cavato fuori con un cucchiaio la polpa. Adesso devo farla asciugare in una padella. Ho pensato che la nudità della melanzana si sarebbe mostrata amara. Ho pensato che forse dovevo coprirne le amare nudità con un dolce soffritto di cipolla. Ma poi mi son detto che le nudità le copriva l’abitudine alla Controriforma, e allora l’ho lasciata sola. La melanzana. Solo un poco di menta alla fine: è una questione di luce, di fotografia del sapore. Quindi ho messo la polpa di melanzana in una padella a fuoco medio e l’ho fatta asciugare. 1 minuto prima che asciugasse, la menta spezzettata a mano. Poi, sale.
Ora è tempo di stendere la pasta riposata, tagliarla a strisce larghe una mano, porvi dei mucchietti di ripieno di melanzane e, muniti di bicchiere e forchetta, fare i ravioli.
Tocca poi invogliare i pomodori a denudarsi. Occorre cura, disponibilità, curiosità e meraviglia, altrimenti si nascondono. Vanno lavati. Vanno tagliati a metà. Vanno delicatamente spremuti per toglierne i semi. E poi vanno posti in una pentola. Vuota. La pentola deve essere necessariamente vuota. Si pone la pentola su un fuoco medio e si mescolano i pomodori fin tanto che non si afflosciano. Si passano al passaverdure e si rimette la salsa sul fuoco per farla ridurre. Le bucce rimaste nel passaverdure non le butto: non ho problemi a digerirle e mi creano piacere al palato. Le aggiungo ai semi di pomodoro raccolti prima. 1 minuto prima che la salsa sia ridotta al punto giusto, basilico a piacere.

E' ora di pranzo: condisco i semi di pomodoro e le bucce con olio, sale, basilico e aglio. Dicesi «Riddhu». Sponzo una frisa fino al mio punto giusto, la faccio troneggiare nel piatto e la vesto di riddhu. Buon appetito Biso. Vino rosato fresco ad accompagnare. Nina Simone a farmi innamorare.

Riparto dal punto in cui ero rimasto: il basilico nella salsa di pomodoro.
E allora prendo il basilico che avevo precedentemente ridotto a pesto col parmigiano e lo comincio a vestire. Comincio a dargli una vita non abitudinaria. È questione di «tecnologia».
Sciolgo 30g di burro cui aggiungo 3g di farina di riso e 30g di farina 00 fino ad ottenere un leggero roux. Tolgo il roux dal fuoco e ci aggiungo il latte e i 100g di pesto mescolando bene ed avendo cura che tutto si amalgami molto bene. Faccio freddare e trasferisco nelle formine del ghiaccio che poi metterò nel congelatore.
Il cuore è pronto, Dr Frankenstein.
Assemblo il corpo: prendo i 4 albumi e li monto a neve ferma, ci aggiungo il parmigiano grattugiato, 10g di farina 00 e 20g di burro fuso. Amalgamo delicatamente e bene. Prendo 4 pirottini di alluminio imburrati e spolverati di parmigiano e li riempio a metà con il composto. Lascio in congelatore sino a che non rapprende. Quando la base è pronta ci appoggio nel mezzo il cuore di basilico e ricopro con il rimanente composto al parmigiano.
Ora tutto nel congelatore, aspettando che il calore dia vita a questa creatura.
Non è cosa semplice creare la perfetta alchimia per dare vita a questa creatura. Dare vita a questa creatura ha a che fare con tempi precisi e coordinati, temperature esatte al grado, velocità di composizione. È una questione di metodo.
Il protocollo prevede di avere i ravioli pronti e la salsa calda nel momento esatto in cui il tortino decide che è tempo di uscire dal forno. Il tortino decide di essere pronto mediamente e a parità di condizioni di esperimento in 19 minuti se ospitato in un forno a 180°.
Ma allora è questione di rigoroso metodo scientifico? Certo che no. Nonostante tutto, in cucina né l’abitudine né la tecnologia sono esaurienti. Qui conta solo lo sguardo. È lo sguardo attento e consapevole che decide: non un secondo prima non un secondo dopo altrimenti il tortino o è liquido o è compatto. Non ci può essere distrazione o superficialità alcuna. Non si può delegare all’abitudine deresponsabilizzante dei termometri e dei cronometri. Non si può delegare: questo piatto ha un senso solo se il cuore del basilico si dona fluido e avvolgente.
Allora si napperà il piatto con la salsa di pomodoro un po’ più che tiepida. Si adageranno sulla salsa i ravioli cotti e sul lato libero del piatto, il tortino da 2 minuti sfornato. Un giro d’olio extravergine sui ravioli.
Composto il piatto infilate delicatamente la forchetta nel tortino e lasciate che il suo cuore vi inondi il naso.
Adesso, Dr Frankenstein, il piatto è vivo.

Buona appetito.

Con sapore,
Biso.

P.s.: volete sapere che fine hanno fatto i 4 tuorli avanzati? Due calde tazze di crema con biscotti. E la merenda di Enrica è pronta

domenica 25 luglio 2010

Lasagna Blues

Sono una goccia di pioggia caduta nel lago Itasca. Prima di essere goccia sono stata lacrima. Poi sarò mare.
Per arrivare a New Orleans sospinta dal grande padre Meschacebé, impiegherò 90 giorni.
Dovrò passare da Minneapolis, Davenport, St. Louis, Memphis, Batoun Rouge ed infine perdermi - passata New Orleans - nella corrente del Golfo che mi porterà chissà dove.
Che strana la vita…
Lo so, lo devo fare. Tutte le gocce di pioggia prima di me lo hanno fatto. Tutte hanno corso, rallentato, saltato, schiumato sino apparentemente a dissolversi per formare il mare.
Lo so, è il mio dovere. Ne va del mare.
Ma non può essere tutto qua. Qualcosa di altro deve pur esserci. E se non c’è, ce lo voglio mettere.
Padre Meschacebé, lascia che giunga al mare a modo mio. Chiedo solo di avere il mio tempo: lo prometto e lo giuro, giungerò al mare. Ma dammi la possibilità di arrivarci a modo mio.
Non chiedo molto. È questione di ritmo.
Avrei voglia di rallentare a Greenville, saltare nella borraccia di B.B King e stare sul suo bus fino a Mayerville per sentirlo sussurrare The trill’s gone. Vorrei anche poter risalire il fiume. E risalendo, risalire il tempo e riuscire ad impigliarmi tra i capelli di Son House che fa il bagno a Riverton, sostarvi abbastanza per sentire lui e le sue mani cantare John the revelator e riprendere il mio cammino non appena il caldo lo porterà a tuffarsi nuovamente. Te l’ho giurato che sarò mare: concedimi allora per un attimo di risalire.
Poi continuerei a scorrere avendo come sponde la musica: Caledonia, Sweet home Chicago, Call it stormy Monday, Every day I’ve the blues… Tutte canzoni che i musicisti di questa terra chiamano «standard». Correrei al mare pensando che nel blues viene comunemente chiamato «standard» un tema musicale molto noto che col tempo è divenuto un classico della musica. E passarei da Vicksburg e sentirei il grasso basso di Willy Dixon suonare Hoochie Coochie Man. E poi passando come spruzzo davanti al Paine Lake mi ricorderei di aver sentito suonare questo standard da Muddy Waters, Jimmy Hendrix, Buddy Guy e Eric Clapton, The Allman Brothers Band, ancora Eric Clapton: in genere ogni bluesman ripropone la propria versione di uno standard secondo il proprio sentire stravolgendo totalmente un brano o apportando a questo graduali variazioni: variazioni armoniche, melodiche e ritmiche, improvvisazione, strumento musicale. Che meraviglia il blues mi direi. E rallenterei. E rallentando immerso in questi suoni mi renderei conto che la musica di questa terra mi farebbe pensare al cibo. Mi farebbe pensare che anche nella cucina italiana esistono gli «standard». Cosa sono Lasagna, Ragù, Pane, Parmigiana di melanzane, Peperonata, Pasta alla carbonara se non degli «standard gastronomici»? Sono piatti molto noti che col tempo sono divenuti dei classici della cucina italiana: ognuno poi li prepara secondo il proprio sentire stravolgendoli totalmente o apportando loro graduali variazioni.
Ecco antico padre Mescachebè, forse la cucina ed il blues raccontano questa naturale maniera per arrivare al mare in modo libero: variare secondo il proprio sentire. È solo questione di ritmo.
Che meraviglia cucinare.
Ho ancora molto fiume davanti a me, continuo a scorrere.



Questa interpretazione di quel meraviglioso standard della cucina italiana che si chiama Lasagna, è nata in un luogo che è stimolo per me : il Quoquomuseo del gusto. Qui mi si propongono continuamente domande a cui mi dà gioia rispondere. È un luogo in cui il cibo non è soltanto cibo.

Allora, cominciamo a cucinare per 12 persone. Ci vogliono la giusta quantità di lasagne fatte a mano e tirate molto finemente. Poi ci vuole della besciamella aromatizzata all’origano fatta con un litro di latte, 90 g di burro e 90 g di farina. Anche alcune manciate di parmigiano reggiano grattugiato (ma va bene anche il grana). 1 Kg di cipolle dorate e 3 Kg di foglie di scarto di rape. Già, perché quel giorno la questione al Quoquomuseo era: come utilizzare gli avanzi o scarti in cucina?
Avete mai fatto caso a quante foglie di rape vengono eliminate durante la pulitura perché troppo “grandi” e quindi fibrose, amare e dure? Bene. Usiamole invece di scartarle. Altrimenti, a cosa servono i cuochi e l’alchimia che maneggiano?
Si tagliano a julienne grossolana le foglie cui si uniscono le cipolle tagliate altrettanto grossolanamente. Si prende una capace padella, vi si adagia un tappeto di olio extravergine di oliva. Si pongono le verdure dentro e solo a quel punto si accende il fuoco. Le rape non devono soffriggere. Le rape prima devono stufare e poi soffriggere. E per questo non occorre alcun accorgimento, ci pensano le rape stesse: fino a che cacciano acqua, stufano. Quando l’acqua si è ritirata, soffriggono.
Fate anche bene attenzione a quando le rape “piangono”. C’è piangere e piangere. C’è un piangere che sa di bizza di bambino: in questo caso, non curatevi delle rape. C’è poi un piangere che è richiesta di aiuto: allora è giunto il momento di aver cura delle rape e cominciare a muoverle nella padella. In questo mutare del piangere, le rape si saranno notevolmente ridotte di volume. Ci vuole circa un’ora prima che la salsa di rape sia pronta. Poi sale e pepe nero.
Nel frattempo, se non lo avete già fatto, è tempo di preparare la pasta: uova, farina e muscoli. Una volta pronte si cuociono in acqua salata e si asciugano su dei panni di cotone che non profumino di Coccolino o Muschio Bianco…
C’è tempo anche per la besciamella, che però vuole un tempo tutto per sé. Non ammette distrazioni.
Una volta che tutto è pronto, comincia la fase di composizione.
Si unge velocemente il suolo della teglia con la salsa di rape e poi in sequenza: lasagne, besciamella (senza abbondare. Le lasagne cotte, non devono sudare), salsa di foglie di rapa, formaggio grattugiato. E poi ancora lasagne, besciamella, salsa e formaggio. Io in tutto l'ho fatto quattro volte. Ma anche tre può andare: a me le lasagne-grattacielo non piacciono.
Pronta la teglia, il forno aspetta a 190°. Si infornano le lasagne e si attende che il formaggio sulla superficie caramelli e assuma quel tono di color marrone che è tipico del fungo porcino.
Non ci sono tempi determinati quantitativamente nella lasagna. Come non ci sono nel blues. È l’intenzione; è la sensibilità; è ciò che si ha da comunicare; è l’esperienza dei sensi che detta il movimento.
E così oggi, in questa ricetta i tempi di cottura sono il piangere delle rape, l’addensarsi della besciamella, il colore del formaggio.

Quanto vorrei che la mia cucina avesse il sapore di Son House.


Con sapore,
Biso