sabato 13 novembre 2010

Risotto profumato ai finocchi

«Partire, ritornare»
Perché festeggiare il compleanno?


Discendo da quel giorno in cui gli dei scesero per l’ultima volta a banchettare con gli uomini.
Sono del sangue dello stesso sangue che generò «colui che è come vuole essere». Discendo dalla stessa stirpe di Dioniso. Sono dovuta nascere regina il giorno in cui mio marito è morto. Morto di festeggiamenti. Prima di quel giorno, onoravo gli dei e le stelle tacevano.

Adesso mi si accusa di pirateria.
Mi si accusa di pirateria e mi si costringe all’esilio.

Si accusa me di pirateria. Come se avessi potuto offrire un’altra scelta.
Hanno mai visto la nostra terra questi pasciuti accusatori? Hanno mai visto la roccia durissima
votarsi precipitosamente al mare? Hanno mai sentito la spinta feroce con cui questa roccia ci incalza? Abbiamo provato a vivere di agricoltura. Abbiamo provato a vivere una vita pacificata con il correre delle stagioni. Ma la roccia ci ha sempre spinto in mare. La roccia incombe. E le stagioni ci hanno concesso pace solo nella navigazione. Sono i venti che hanno in custodia la pacificazione della nostra esistenza. E dovevamo pur vivere. Che colpa c’è nella volontà di sopravvivere? Hanno memoria della fame queste unte pance accusatrici?

Sono qui esiliata tra le montagne di Rhizon per aver voluto difendere almeno la possibilità di sopravvivere delle nostre tribù. Chiusa in una fortezza, ingoiata dalle montagne.

Ingoiata in questa solitudine ho imparato a leggere i percorsi delle stelle. Un sacerdote sordo mi ha indicato la voce delle stelle. Le stelle non tacciono più per chi diviene sordo.

In una notte che è arrivata in ritardo, le stelle mi hanno parlato.
Con un movimento silenzioso, mi hanno chiesto di rendere giustizia al giorno della mia nascita.

Ma che senso ha onorare il giorno della mia nascita?
Ho scrutato le stelle con orecchie senza dèi. E mi hanno indicato il senso.
Mi hanno indicato la strada del ritornare per ripartire. È il ripetere che produce differenza.

Quel giorno sono nata e con me è nato un mondo: il mondo nasce per ognuno che nasce al mondo.
E sono partita per quel mondo. E l’ho scoperto. Capita che ci si meravigli per dei fiori, per dei volti, per delle grate, per dei profumi, per delle presenze, per dei sorrisi, per dei sapori. Ci si meraviglia per degli occhi, per delle voci, per delle assenze, per dei canti, per delle braccia.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai fiori, ai volti, alle grate, ai profumi, alle presenze, ai sorrisi, ai sapori, agli occhi, alle assenze, alle voci, ai canti, alle braccia.
Ed allora sono dovuta ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, volti, grate e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta del corpo. Esplorare il mio. Sentirne i movimenti. I sussulti. I desideri. Scoprire che le passioni hanno corpo. Sono corpo. Sono corpo che desidera. Corpo che desidera altri corpi. Ed allora ripartire per esplorare altri corpi. Navigarne le pieghe. Percepirne le vibrazioni. Assecondarne i movimenti. Odorarne il calore. Amarne l’esistenza. E gioire dell’essere corpo tra corpi. E gioire di essere della stessa stirpe della terra e delle stelle.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai corpi, alle carezze, alle stelle, alla terra, alla pioggia, all’abbondanza.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, volti, corpi e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta del pensiero. Cominciare a navigare nell’alfabeto. Appropriarmene. Assemblarne gli elementi e capire che questo mette in risonanza i corpi. Scoprire la comunicazione. Fare scorribande tra i corpi razziando parole. Appropriarmene. Gettarmi nella moltitudine, affamata di comunicazione. E poi scoprire la solitudine. E scoprire che la solitudine non è silenzio. Scoprire che nella solitudine la comunicazione si fa pensiero. Si fa dialogo con il mondo. Si fa luce tra i corpi. Scoprire che il pensiero è la lingua del “tra i corpi”. Questo è il dono che la mia stirpe ha fatto all’umanità: con il pensiero l’uomo è restituito alla capacità di incontrarsi con il sacro senza bisogno degli dei. E le stelle rifulgono.
Ma poi sono stata così pazza da abituarmi al pensiero, alla comunicazione, alla voce che risuona tra i corpi, al sacro. Sono stata così pazza da credere agli dei.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi partire.
Partire per quel mondo in cui fiori, corpi, pensiero e gli altri incontri non sono più abituali presenze, ma leali compagni. E con essi andare alla scoperta dei sentimenti. Dibattermi. Sudare. Affliggermi. Rimpiangere e soffrire. Gioire, gridare e commuovermi. Desiderare, odiare, cercare, pesare, sognare, grugnire, galleggiare, sprofondare, attendere, donare. Domandare, dubitare e credere. Grondare e concepire. Alleviare. Vendicare. Poi fermarmi. E scoprire. Scoprire che i sentimenti sono il corpo come pensiero. Sono il pensiero come corpo. Sono la densità dell’esistenza. Sono la durata che condensa. Sono il trascorrere. Sono relazione. Sono la capacità di stare “tra” senza includere né escludere. Ma poi sono stata così pazza da abituarmi ai sentimenti. Così pazza da dominare col pensiero i sentimenti; con i sentimenti il corpo; con il corpo i sentimenti; con i sentimenti il pensiero. Così pazza da assuefarmi alla relazione. Così pazza da mutilarmi il corpo con il pensiero. Così pazza da trasformare la durata in tempo. Così pazza da escludermi dall’esistenza.
E allora non mi è rimasto che ritornare. Ritornare a ricordare quel giorno in cui il mondo è nato per me che nascevo al mondo. E riportare meraviglia e stupore nel mio partire.

E poi ritornare
E poi partire.
Per ritornare.
E partire.

Perché nascere allora?
Le stelle dicono che nasciamo perché abbiamo bisogno di poesia.

Perché abbiamo bisogno di poesia.

In una notte arrivata in ritardo, le stelle mi hanno svelato il segreto che ha mantenuto potenti gli dei. Mi hanno raccontato la menzogna su cui si è fondato il loro potere. È la menzogna che la mia stirpe a partire da Cadmo e Armonia ha sempre voluto smascherare. È toccato a me approdare. È toccato a me leggere sulle labbra delle stelle che non si nasce perché così vuole il destino.
Non si è mai destinati a nascere.
Nasce solo chi ha bisogno di poesia.

Solo chi ha bisogno di poesia.

Nascere è venire al mondo di un mondo il cui districarsi è poesia.
Solo chi ha bisogno di poesia ha bisogno di nascere.
Vivere la vita è la necessità di esperirsi come atto poetico.
Ed io, Teuta, regina degli Illiri, ho bisogno di poesia.
Ho bisogno di sentimenti, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze, di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue.
Io, Teuta, ho bisogno di poesia.
Questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni, che dà colori nuovi.
Io, Teuta della stirpe di Dioniso che è «colui che è come vuole essere», ho bisogno di poesia.
E per ricordarmelo devo ritornare a quando il mondo è nato con me che venivo al mondo.

Vivere è un atto poetico.
Da ripetere.

Buon compleanno.
A tutti.



Nel menù di quella sera, il risotto si dava per il pensiero. Una zuppa di farro per il corpo. E lasagna di foglie di rapa per il sentimento.


Il fatto è che quando si festeggia, si festeggia. E non si può essere pochi quando la festa vuole essere condivisione, musica e risate.
Quindi oggi, ricetta per 30 persone.
Ci vuole un bel po’ di riso Carnaroli: all’incirca 2 Kg. E ci vuole anche una bella padella in cui cucinarlo. Il risotto è un rito. Il risotto è una vera e propria soddisfazione per ogni cuoco che si senta artigiano. C’è molto lavoro. Lavoro di preparazione, di cesello, di costanza, di attenzione e di dedizione. Ogni dettaglio fa la differenza. Il dettaglio fa il risotto.
E come il riso, anche la bellezza ama riposarsi nei dettagli.
Ed allora cominciamo a preparare i dettagli.

Dettaglio numero 1: il brodo.
Sarà un brodo di verdura quello che fascerà cremosamente il riso. Non vi dico il procedimento perché tanto ognuno ha il suo. Vi dico solo: non lo fate arrogante. Prediligere i profumi è il dettaglio in questo brodo.

Dettaglio numero 2: i finocchi.
Trovateli belli, che non vuol necessariamente dire grandi. Ce ne vogliono almeno 4 Kg. Non gettate via niente. Puliteli, separate le guaine esterne dal cuore. Mettete da parte anche i gambi. Tagliate i cuori a julienne non troppo fine.
Con le guaine esterne e i gambi prepareremo una crema. Ecco l’altro piccolo dettaglio da curare. Il finocchio deve diffondersi ovunque. Dobbiamo cuocere a vapore le guaine esterne e i gambi. Una volta cotte passare al frullatore con un filo di olio extravergine di oliva. Oggi, che è Novembre, ho con me un meraviglioso olio nuovo del Frantoio Sociale di Spello: un’esplosione erbacea di freschezza piccante. Lo guardi scivolare dall’oliera mentre trasporta questo suo color oro smeraldo erbaceo, e ne capisci l’onestà. È un dettaglio questo affidato alla stagione. Ogni stagione regala dettagli.

Dettaglio 3: aglio o cipolla?
Scalogno. Prendete 5 scalogni e tritateli.

Dettaglio 4: i semi di finocchio.
Procuratevi una manciata di semi (che poi semi non sono) di finocchio selvatico. In alternativa vanno bene pure i normali semi (e questi sono veramente semi) di finocchio coltivato.

Dettaglio 5: delle belle arance biologiche.
Arance dalla scorza integra e profumata. E per adesso lasciatele lì da parte a dare colore.


È giunto il momento del raccoglimento, della concentrazione e dell’intensità.
Soffriggere leggermente lo scalogno e i semi di finocchio. Lo scalogno deve diventare lucido, quasi trasparente. Concentratevi perché se soffriggete troppo lo scalogno, questo sovrasterà la delicatezza del finocchio. A scalogno trasparente, aggiungete i finocchi tagliati a julienne e lasciate cuocere per 9 minuti. Aggiungete il riso che si tosterà e insaporirà nel soffritto.
Uno, massimo due minuti e poi, brodo. Brodo bollente. Da adesso comincia la cottura del riso. Cosa dice la confezione? 17 minuti.
Ecco saranno 17 minuti di cure continue. Cominciate con una bella quantità di brodo. Abbiate cura di mescolare di tanto in tanto in modo che ogni chicco sia bagnato dal brodo. Aggiungere sempre brodo. Adeguate la quantità di brodo che aggiungete allo stato di cottura del riso. È qui che si concretizza il dettaglio della cremosità. C’è sempre la possibilità di camuffare l’eventuale incuria finale mantecando con del burro. La cremosità si manifesterà comunque. Ma è pur sempre un dettaglio che porterà con sé il sapore di rimedio. È cura il risotto. È solo e soltanto cura. La differenza tra ottenere una minestra di riso, un riso condito o un risotto, sta nella cura.
Cinque minuti prima della fine della cottura, aggiungere la crema di guaine e gambi e continuare a cuocere. Quando il riso sarà al dente, spengere la fiamma, aggiungere una manciata di parmigiano e grattugiare la buccia delle arance. La quantità qui dipende dalle risposte che vi daranno gli occhi e il naso. Non vi scordate mai che è pur sempre un risotto di finocchi. Lasciate mantecare 3 o 4 minuti. Servite ovviamente ben caldo. Io quella sera ho cosparso un po’ di niepitella secca. Ma qui si aprirebbe tutto un altro discorso.

Questo è un piatto per tutti e per nessuno. Ci si deve disporre, si deve rallentare, si deve sostare. Si deve predisporsi alla concentrazione. Al raccoglimento. All’intensità.
È la profumata effimera delicatezza del pensiero che vi si propone come esperienza.
Visto da qui il pensiero non si dà come pesante giumenta che trascina un aratro invasivo. E non si dà nemmeno come addestratore di giumente.
Il pensiero ha profumo e delicatezze. E superficialità. Percorre tra le pieghe l’essere, scoprendone la non profondità. È questa la sua forza e la sua potenza. Il pensiero è un aver cura profumato e delicato. E vuole cura e attenzione anche nell’assaporarlo.

Buon appetito.

Con sapore,
Biso

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