domenica 15 gennaio 2012

Pezzetti di cavallo alla maniera delle famiglie rom-salentine




I popoli romanì a forza di essere nomadi si obbligano e si dispongono agli incontri; il Salento a forza di essere Mediterraneo aggrappato alle rocce d’Europa si è obbligato e si è disposto all’attraversamento, al limitare e alla commistione. C’è una sorta di complementarietà in questo disporsi: c’è da una parte l’invito al cammino, all’essere vento  e dall’altra l’invito a farsi attraversare, al lasciarsi segnare.  E alla fine è come un invito al vento quello che si respira: c’è l’invito romanì a sciogliersi come vento e inseguire l’altrove anche quando il battere è lento e radicato; c’è l’invito salentino ai venti densi di brandelli di altrove a lasciarsi irretire, rallentare e condensare prima che si possano dissolvere.

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È stato un pomeriggio di allegra convivialità: trascorrere alcune ore a parlare di cucina con le signore della comunità rom-salentina di muro Leccese è stato piacevole. Il loro parlare musicale viaggiava senza posa tra ricordi di feste danzanti apparecchiate intorno a grandi tavolate contrappuntati da disquisizioni su “stanati” di parmigiana di melanzane al forno; tra gridolini di eccitazione per l’evocazione di un sapore oramai dimenticato; tra occhi sorpresi dall’interesse di “uno del nord” per le usanze, i colori, i profumi e le storie di persone che vivono in un sud percepito lontano; tra il clangore di clamorose eclettiche clausure sfuggite claudicando per l’affaticamento delle consuetudini climatiche; tra i sospiri di una rassegnazione che ha le tonalità cromatiche di un destino; tra quel sorriso dietro gli occhi che annuncia chiaramente che il destino è lievito.
È in un pomeriggio come questo che mi è stato fatto dono da queste imponenti e contegnose madri delle famiglie rom-salentine della ricetta dei pezzetti di cavallo al sugo. E se mi trovo adesso a raccontarla è perché da quelle famiglie mi è venuta una richiesta esplicita di rendere questo dono nomade: mi è stato chiesto di sradicare questo sapore e di portarlo in giro, là,ovunque incontri vite in grado di condividerlo e assaporarlo.
C’è durezza e sofferenza nel dover raccontare un piatto che abbia come cuore parti di un animale. Ma in contesti come quello in cui è nata questa ricetta, non si è mai trattato di scelte etiche o morali. Si è trattato innanzitutto di sopravvivenza. E poi, ma solo poi, commercio.
Non è il caso, né quel pomeriggio né adesso, di attraversare pensieri come questo che porterebbero molto lontano. Solo mi sento di dire che mai ho avvertito durante il nostro colloquiare di cibo, quel senso di irrispettoso specismo che fa sussultare e che spinge verso scelte alimentari basate su valori etici.
La dignità dell’animale, il rispetto nei suoi confronti, l’essere parte di una relazione naturale comune è sempre risuonato sullo sfondo. Per questo non mi sono sentito sacrilego. Anzi, ho avvertito come una sorta di sacralizzazione.
L’animale scelto per questo rito era sempre un cavallo anziano e molto vicino alla fine della sua vita. Veniva macellato e nel racconto di questo mi è arrivato forte il senso del sacrificio inteso nel suo significato etimologico di “rendere sacro”: come se si volesse innalzare e rendere saldo e viscerale il rapporto che si era instaurato.
Racconto senza giudizio.
La carne poi veniva fatta bollire in acqua con alloro e sale schiumando ogni volta che era necessario. Sobbolliva nell’acqua aromatizzata fino a quando pungendola con una forchetta, questa non penetrava con una certa disinvoltura nella carne. Oggi diremmo sino a metà cottura.
A quel punto la si toglieva dall’acqua che però veniva conservata per terminare eventualmente la cottura. In un tegame veniva scaldato dell’olio in cui si faceva rosolare aglio e cipolla. Quando quest’ultima era appassita ed imbiondita, sia aggiungeva un poco di peperoncino “amaro”. Poi toccava ai pezzetti di carne che venivano fatti rosolare in questo olio sino a che non acquisivano screziature ambrate. A quel punto vino a sfumare, preferibilmente bianco. Adesso era il momento di aggiungere sugo di  pomodoro rigorosamente cotto precedentemente sobbollendo almeno quattro ore.
A fuoco basso si lasciava la carne di cavallo cuocere per almeno un’altra ora e mezza. Se il liquido di cottura si assorbiva troppo, si aggiungeva mano a mano l’acqua di bollitura della carne che era stata messa da parte in precedenza.
A fine cottura il tegame veniva portato sul tavolo ed accolto da tutta la famiglia, la larga famiglia rom-salentina, riunita intorno alla grande tavolata per fare festa, per rendere sacro il giorno. E così ricominciava quel parlare musicale, quei gridolini di eccitazione. E poi vino. E poi musica. E poi danze.

Nella sacralità del rispetto c’è anche la non quantificazione delle dosi: non c’è spersonalizzazione nella tradizione. Si è prima della codificazione. Si è ancora in quell’ambito in cui la relazione con la presenza, la consapevolezza dell’atto rituale che si va compiendo definisce l’agire. Si è ciò che si fa al di là di codici oggettivizzanti.

Viene da sé che questo non è mai stato nella tradizione rom-salentina una piatto “tradizionale” nell'accezione dell'essere consumato tutti i giorni: era un sacrificio e quindi era un rito occasionale, legato ai tempi della vita e del convivere. Anche questo deve essere detto. Anche questo deve fare riflettere.

pubblicato su Il Paese Nuovo del 24 giugno 2012