venerdì 13 novembre 2009

Sedanini di farro alla Monteroni

 
Monteroni. Monteroni è un paese in provincia di Lecce. È un paese molto vicino a Lecce. È un paese dove ho trascorso alcuni giorni della mia vita.  Ricordo di averci scritto storie su di un rotolo di carta igienica. Ricordo di averci visto battezzare una fata con un canto alla luna. Ricordo di averci parlato così tanto da far venire la muffa sui muri. Ricordo con grande piacere. E sono quel tipo di ricordi che impregnano lo sguardo felice. Ma non ricordo di averci mai cucinato.
Ed allora cosa c’entra Monteroni in tutto ciò? Assolutamente niente.
Questa ricetta è nata casualmente a Montorsoli in provincia di Firenze. Dovrebbe dunque chiamarsi «Sedanini di farro alla Montorsoli». Ma non c’è modo: io ed il mio cervello ci stiamo ostinando a chiamare questo piatto « Sedanini di farro alla Monteroni».
Sarà per il «Monte» comune…

«Madonna oggi un c’ho proprio nulla pe’ favvi da mangiare. Ossuvvia Biso, e ttu sei cuoco… aiutami…». Cominciano sempre così i più bei momenti in cucina. Stavolta accadeva con il suono della voce di Valentina. Valentina di Montorsoli, appunto. Pare normale che un medico si adoperi per aiutare chi si senta improvvisamente male. E se accade per strada, che lo faccia senza stare a discutere per i mezzi a disposizione in quel momento. Chi sceglie di fare il medico, queste situazione di emergenza e di pressione credo le metta in conto. Anzi, credo lo senta come un dovere: ne va della vita delle persone. Perché allora un cuoco non dovrebbe adoperarsi per aiutare chi all’improvviso si senta sprovvisto di buon cibo senza fare troppe storie riguardo agli ingredienti? Il giorno che si sceglie di fare il cuoco queste situazioni di emergenza e di pressione le dobbiamo mettere in conto. Anzi, le scegliamo proprio. Le prediligiamo. Di più, è un dovere: ne va della felicità delle persone.
Cosa si fa in questi casi? Semplice, si apre il frigorifero. Quel giorno: latte parzialmente scremato, radicchio rosso e gorgonzola. Ci si guarda un po’ in giro per la cucina. Quel giorno: scalogni, sale fino, sale grosso, pepe nero macinato, arance, zucchero grezzo di canna, aceto, limoni, olio extra vergine di oliva, pasta secca corta, pasta secca lunga. Quel giorno: niente aglio. E poi si gioca la lotteria delle pentole. Quel giorno: due padelle, una pentola per la pasta ed un pentolino per il latte. Infine i coltelli e i taglieri. Quel giorno: uno di entrambe.
Non si può certo dire che in cucina il numero di ricette possibili sia proporzionale al numero di ingredienti a disposizione. Sono molte comunque le soluzioni. E trovare una soluzione in cucina vuol dire raccontare una storia che dia ordine e sequenza agli ingredienti coinvolti. Quel giorno: era autunno. Ed era Autunno sull’Appennino Toscano: avevo voglia di sottobosco profumato. La storia: c’è Gorgonzola con il suo corredo di sentori autunnali che reclama. Reclama a sé il boscaiolo Alloro. Per il loro avvicinarsi, un colore si sveglia: il rosso/marrone di certe sfumature dell’Autunno sugli Appennini. Dentro a questo colore ci stavano accovacciati il radicchio ed il vino rosso. Erano rannicchiati perché si stavano preparando all’inverno. Si unirono agli altri. Il rischio che questa compagnia radunatasi nel bosco diffondesse intorno spiccata amarezza, era alto. Tutta gente di montagna, destinata all’inverno: tutta gente marcatamente amara. Il rischio era che non socializzassero, in definitiva. Giunse allora da terre lontane lo Scalogno in compagnia dello Zucchero Grezzo di Canna. Si avvicinarono per mediare, ma non furono compresi. Diametralmente opposti al freddo dell’inverno. Incomprensibili per questa gente di montagna. Si sarebbero rotte le righe, se non fosse stato per l’improvviso arrivo delle Arance con la loro dolce solarità invernale: le Arance raccolgono la solarità esausta del Sole di fine Estate, la rigenerano, la rinfrescano e la accompagnano custodendola e diffondendola dolcemente sino a che non giunge Primavera. Poi vanno in letargo, d’Estate. Le arance sono dolcemente felici solo d’Inverno: ad ognuno la sua stagione. Alla fine Scalogni, Zucchero e Arance si abbracciarono al radicchio, l’alloro, il vino rosso ed alcuni altri scalogni riuniti insieme. Arrotondava il tutto l’abbraccio avvolgente del gorgonzola aiutato dal latte parzialmente scremato. In mezzo a questi abbracci, ricordi di spighe di grano.
Quel giorno sciolsi una mezza fetta di gorgonzola dolce (circa 150 g.) nel latte parzialmente scremato sino ad ottenere una consistenza di una fonduta. Nel frattempo pulii, lavai e tagliai a listarelle 1 cesto di radicchio rosso. Piansi affettando sottilmente 4 scalogni di media grandezza. Presi le padelle: in entrambe disegnai qualche cerchio con l’olio extra vergine di oliva. Presi prima la padella di sinistra, la misi sul fuoco e feci scaldare il filo d’olio. Vi aggiunsi 3 degli scalogni affettati. Li feci andare sino a che non diventarono traslucidi. Aggiunsi un cucchiaio di zucchero grezzo di canna. Feci caramellare e poi aggiunsi il succo spremuto da mezzo arancio. Feci ritirare il liquido. Avevo pronti i miei scalogni agro-caramellati. Misi a bollire l’acqua per la pasta e su l’altro fornello a scaldare l’olio nell’ultima padella rimasta, quella di destra. Ad olio caldo lasciai appassire l’ultimo scalogno affettato. Tempo di ammorbidirsi, aggiunsi il radicchio rosso sostenuto da una foglia di alloro. Lo aiutati a cuocere lentamente offrendogli di tanto in tanto un po’ di vino rosso. In totale un bicchiere di buon Chianti. Quando l’acqua prese a bollire, buttai la pasta: eravamo in tre, per cui 240 g. di penne rigate. Scolai la pasta e la saltai nella padella con gli scalogni agro-caramellati sino a che non avevo raccolto tutta la salsa, magari aiutandomi con un po’ di acqua di cottura della pasta. Fatto questo aggiunsi il radicchio cotto. Mescolai bene. Il tempo di versare la fonduta calda di gorgonzola a specchio nei piatti; di adagiare la  pasta condita al centro della fonduta. Eravamo a tavola. Valentina era felice. Sabrina pure. Io anche.

Con sapore,
Biso

P.S.: poi successivamente ho assestato i sapori riproponendo il piatto con sedanini di pasta fatta in casa con la farina di farro. E così anche quel ricordo di fieno che mi passeggia nel naso quando penso all’Autunno sull’Appennino Toscano, si è accasato.

mercoledì 5 agosto 2009

Frunte de luna, la ricetta.

Enza…forse una delle donne più vaste ed estese che abbia incontrato. Così vasta da essere umana. Un donna così umana da riempire lo spazio che c’è tra la terra e il cielo. Così terrestre da diventare spirito quando provi a toccarla. E così celeste da diventare sudore quando provi a capirla. Un’anima che profuma di sudore in/per/da una carne mossa dalla poesia. È una donna così umana da farti ricordare quanto tu sia lontano dalle stelle. È una donna vasta al punto di compenetrare dolore e amore: soffre amando e s’offre amando.
E sei hai la fortuna di abbandonarti a lei, rischi di amarla. Puoi anche scappare, se vuoi. Ma se ti abbandoni al rischio, vasto è il viaggio che ti viene donato. Puoi farti raccogliere da questa donna mentre sei seduto tra gli ulivi, seguirla giù sino a che non ti confondi con le radici e poi, sporco di terra rossa, volare, là dove gli ulivi si confondono nel Tutto.
È un viaggio rischioso, ma è il viaggio.


Enza, meravigliosa macara, anche nello scrivere ti sei insinuata. Solo ora mi accorgo della tua macaria: se provo a rileggere tutto sostituendo alla parola donna la parole voce, niente cambia. Tutto torna. Enza è voce ma la voce – lo voglia o meno – è Enza. Enza è donna.
Ecco cosa è questo disco. Questo disco è Enza

Non è stato facile raccontarglielo. Non è bastato un intero menù: tortino caldo di paranza; tagliatelle al pesto di rucola su salsa di pomodoro; vertigine di maiale alle cicore creste. E poi Frunte de luna. Frunte de luna è l’idea commestibile più immediata che ho avuto per esprimere vastità. È un territorio i cui estremi sono il freddo e il caldo. È il territorio dove freddo e caldo si incontrano in un riverbero di spezie e mele. Non ci vuole molto per farlo. Semplice, ma toccante. Comincia tutto con una macaria. E come per ogni macaria c’è un rito da seguire. È il rito del gelo. Il gelo alla vaniglia. A me sono serviti 6 tuorli d’uovo, tempo, 100 g di zucchero, 400 ml di latte, pazienza, 1 baccello di vaniglia, un po’ di scorza di limone, 300 ml di panna da montare e una abbondante dose di vigorosa delicatezza. Il gelo aggiunto di vigorosa delicatezza diventa rotondo, perde gli spigoli. Facilmente mi rivedo mentre profumo il latte riscaldandolo con la vaniglia e la scorza di limone senza farlo bollire. Tolgo i semi dai baccelli di vaniglia e aggiungo nuovamente entrambe al latte. Lascio raffreddare e riposare per alcune ore. Sbatto poi i tuorli con lo zucchero sino a che non diventano belli spumosi e di un colore giallo scarico. Sempre mescolando, incorporo a filo il latte profumato a cui ho tolto le scorze di limone e i baccelli di vaniglia. Rimetto tutto sul fuoco e faccio cuocere piano, mescolando in senso antiorario sino a quando la crema non vela il mestolo di legno. Adesso la crema è inspessita al punto giusto, posso togliere dal fuoco e farla raffreddare. La devo lasciare riposare in frigo almeno una notte, mi dico. Il giorno seguente monto la panna a neve. La incorporo delicatamente alla crema senza farla smontare. Verso il tutto in un contenitore di alluminio che metterò in freezer. Per ottenere uno consistenza seducente, provo questo procedimento: verso il composto nel contenitore di alluminio (che deve aver trascorso una notte solitaria al gelo del freezer) e lo metto in freezer per un’ora. Dopo un’ora lo tolgo e mescolo con decisione per rompere i cristalli di ghiaccio che si sono formati (mi dico che può andare bene anche passarlo al mixer delicatamente. Vale a dire a velocità bassa.). Questo serve a mantecarlo. Rimetto in freezer per un’altra ora. Passata anche questa, lo tolgo nuovamente e manteco. Altre due volte in freezer e il gelo di crema è pronto. Voi comunque, mantecate sino ad ottenere una consistenza che vi soddisfi.
Per il tortino di mele ci vogliono 100 g di zucchero, 100 g di farina, 100 g di burro, 1 cucchiaino da tè di lievito per dolci, 1 Kg di mele, 1 uovo, 100 ml di latte e cannella in polvere. Si potrebbe fare con delicatezza, ma io vi consiglio di farli sudare gli ingredienti: il caldo trattato bruscamente – non so perché – si rinfresca. Sbucciate le mele e tagliatele a fettine sottili. Sciogliete il burro a bagnomaria e poi mescolate tutti gli ingredienti insieme, tranne le mele. Ottenuto questo composto liquido, aggiunte le mele e mescolate vigorosamente. Imburrate e infarinate dei pirottini di alluminio. Versateci dentro il composto e infornate a 180° per 39 minuti. Una volta cotti, toglieteli dai pirottini e poneteli al centro di un piatto.
Guarnite il tortino ben caldo con una pallina di gelo adagiata sulla sommità. Lasciate che il gelo sudi un poco, e poi servite.
Gustate e non vi preoccupate: è stato il vento che ha buttato giù la canna. Bimbo fai la nanna che il babbo stà a dormir.

Con sapore,
Biso

Pubblicato sul Cd Frunte de Luna di Enza Pagliara

lunedì 29 giugno 2009

Tajine Arrà

Diavolo di un Cavallo. Diavolo di un Claudio Cavallo Giagnotti.
Mi ha portato a giro per tutto il Mediterraneo.
Sono salpato desiderando pezzetti di cavallo in pignata e alla fine del viaggio mi sono trovato a mangiare tajine àrra.
La pignata a spasso per il Mediterraneo è diventata tajine: recipiente in terracotta tipico della cucina magrebina, con coperchio conico. Può essere usato sia in forno che sulla fiamma. Tajine è anche il termine usato in Magreb per indicare lo stufato in genere.
Approdando in Algeria, in Marocco, in Grecia, in Turchia, ho trovato cumino, coriandolo,
paprika dolce, zenzero, zafferano. E sono stato sopraffatto dalle spezie. Sono ingovernabili quando le incontri le prime volte. Sembrano arroganti, ma solo perché non hai confidenza.
E siccome sei timoroso, loro non ti rispettano.
Ma la presenza di Cavallo porta a non aver paura. Decisamente porta a non lasciarsi sopraffare. Ed allora ho cercato di assecondarle ricorrendo a profumi e sapori che mi erano più familiari. Profumi della mia tradizione: arancio, finocchio, dragoncello, maggiorana.




Tornato a casa dal viaggio, ho raccontato tutto con circa 8 etti di carne di muscolo di cavallo.
E una tajine.
Avevo con me gli appunti di viaggio: cumino, coriandolo, paprika dolce, zafferano e zenzero. Un cucchiaino da te di ognuna. E una manciata di ricordi di casa mia: dragoncello e maggiorana.
Mi mancava solo un po’ di grazia, acidula. L’ho trovata nella preparazione dei limoni confit e delle arance confit. Lavoro lungo; lavoro tecnico. Esigenza antica, tecnica moderna.
Ho quindi passato la carne tagliata a pezzetti nella farina leggermente aromatizzata con le spezie: poco meno di un cucchiaino di ognun. Ho scaldato in una casseruola 4 cucchiai di olio extravergine di oliva toscano: come dire, l’eleganza. A olio caldo ho rosolato la carne sino a che non si è perfettamente ricoperta di un profumato colore dorato. Ho aggiunto una cipolla bianca tagliata finemente e ho lasciato cuocere per altri 5 minuti. Tutto a fuoco moderato. Quando la cipolla si è fatta lucida, quasi trasparente, è venuto il momento di aggiungere circa 80 grammi di radice di zenzero spellata e 3 cuori di sedano. Tutto tritato finemente. A seguire, 3 pomodori maturi tagliati a cubetti (concassé), il peperone verde tagliato a listelle, le olive Kalamata trovate in Grecia, un pizzico di steli di zafferano, un cucchiaino da te di cumino e coriandolo, mezzo cucchiaino da te di paprika dolce. Le spezie ovviamente mi ero divertito a macinarle in un piccolo mortaio. Ho aggiunto anche 3 spicchi d’aglio spellati. E poi sale e pepe.
Ho dato una bella mescolata, e aggiunto il vino rosso: un bicchiere nella casseruola ed uno nella mia bocca. Lo confesso, non ho resistito: era Chianti. Ho aspettato che il tutto sobbollisse e che il vino perdesse l’odore di alcool. A quel punto ho trasferito tutto nella tajine, l’ho coperta ed ho infornato per circa 1 ora a 160°. Vuole delicatezza questa composizione: per cui temperatura non elevata e cottura prolungata. Passati i 60 minuti ed anche qualcosa di più, ho tagliato e aggiunto le arance confit, un cucchiaino abbondante di semi di finocchio pestati nel mortaio ed una manciata di dragoncello e maggiorana tagliati grossolanamente a mano. Ancora forno per 10 minuti.
E pensavo che si deve stare molto attenti a non lasciare troppo tempo la tajine senza coperchio: il fascino di questa cottura è il multietnico condensarsi dei profumi al suo interno. Sono le diverse tradizioni che evaporando e condensando, ricadono sulla carne creando profumi e sapori nuovi. C’è un genere di novità che nasce solo dalle tradizioni. E così pensando sono trascorsi i 10 minuti: ho tolto la tajine dal forno, aggiunto i limoni confit tagliati a mezzaluna e infornato per gli ultimi
10 minuti avendo cura di lasciare lo sportello del forno semi aperto: non si deve rovinare il lungo lavoro fatto per preparare i limoni confit.
A questo punto si porta in tavola la tajine; la si sistema nel centro del tavolo e si toglie il coperchio. L’esplosione dei profumi nella stanza fa parte del sapore di questo piatto. È un misfatto aprirlo a parte in cucina e privare gli amici di questa gioia. La si accompagna con farro bollito o con del couscous e perché no, con della polenta, magari di grano formenton ottofile della Garfagnana.
Assaggiandola pare di essere sopraffatti da una certa contaminazione. Si confonde contaminazione e pesantezza. Si confonde la ricchezza della contaminazione per pesantezza. La pesantezza della pigrizia. Maledetta pigrizia del gusto. Ma se si rallenta un attimo, se si lascia che tutto accada in bocca e nel naso, ci si arrende soddisfatti di fronte alle tradizioni che incontrandosi formano novità. Me lo ha svelato Cavallo. Me lo hanno raccontato i Mascarimirì.
Per finire: se vi viene voglia di preparare questo piatto, vi prego, cercate di sperimentare contaminandolo con le vostre spezie, con le vostre storie, con la vostra tradizione.
E fatemi sapere.

Con sapore,
Biso.

Pubblicato sul CD 10 anni collection dei Mascarimiri