martedì 1 aprile 2014

Tradere



Non è intuitivo.
Non è intuitivo capire la cosmologia di una comunità.
Nemmeno capirne i modi dell’abitudine.
Non lo è capirne gli odori.

Questo pensavo di fronte alla scapece. Mi risulta veramente difficile il sapore della scapece.
Eppure da quando sono arrivato, si è posto lì, davanti, monolitico. Definitivo. Me ne hanno sempre parlato come di una forma della prelibatezza. O meglio di una identità. Sembra essere uno di quei cibi che fanno comunità. Che designano una tradizione. E me ne hanno sempre parlato con bocche salivanti.
Per me, immigrato di oggi, ha il sapore del dogma.
Ma non può essere così. Troppe bocche continuano a parlarne. Ed allora viene da pensare che c’è qualcosa nel sapore che non va. Viene il dubbio che il sapore non sia più quello.
Ma perché non dovrebbe esserlo? sono cambiati i modi di preparazione? È cambiata la qualità degli ingredienti? È cambiata la comunità che lo mangia?
Non è intuitivo capirlo.
Il gusto è chiaramente un sensazione olistica. Una di quelle sensazioni fatte di biologia e memoria.
Una memoria che non è intuitivo condividere. È una memoria fatta di cosmologia; ritualità; relazioni; metodi di conservazione dei cibi. E biologia.
Forse la comunità che lo ha realizzato era usa al sapore pungente e dominante dell’aceto. Aceto per conservare. Forse era una comunità il cui rumore di fondo aveva anche il sapore dell’aceto. Rumore che alla fine, assolto per mezzo dell’abitudine, diventa silenzio. E in quel silenzio ci sono anche l’abitudine ai modi del divino. Alle cosmogonie. Ai quotidiani odori del corpo.  Ai tipi di recipienti a disposizione per conservare gli alimenti. Alle musiche. Alle lotte. Alle terre. A qualche forma di paura della fame.
Quante cose ci sono nel silenzio della scapece? E non è intuitivo abitarle tutte.
Che ci fa lo zafferano in quel silenzio? Gli arabi, mi si dice.

C’è ancora troppo rumore per me, immigrato di oggi, nel sapore della scapece.

Non è intuitivo abitare il sapore della scapece.
Non è intuitivo abitare una tradizione.
Tradere è istintivo.


martedì 23 aprile 2013

fuoco nomade 2013: la lettera bucata







La lettera bucata
Territorio: causalità, simultaneità

terzo incontro di fuoco nomade 2013

« [...] Questa esperienza lo portò a vedere ogni scritto compiuto come una lettera a cui mancava una frase: come una lettera bucata. Come una poesia con un verso mancante.  E cominciò ad aggiungere capitoli a libri, versi a poesie, strofe a canzoni. Le poesie che più amava erano quelle cui mancava un verso. Poi imparò che a tutte le poesie manca un verso: è il verso che noi dobbiamo aggiungere. E quando non gli bastavano le parole, ne inventava. Diceva che la vita non è adeguarsi, ma ampliarsi. Il problema dell’io non è quello di dissolversi, ma quello di ampliarsi. Il problema della ragione non è dissolversi, ma ampliarsi. Il problema della disciplina non è dissolversi ma ampliarsi. Il problema della tradizione non è dissolversi, ma ampliarsi. Dare senso è ampliarsi. Così aveva vissuto: aggiungendo se stesso alla storia che lo trasportava. Aveva vissuto avendo per orizzonte una lettera bucata [...] »

Admir Shkurtaj (pianoforte, fisarmonica, oggetti e suoni)
Biso (sapori)

presso Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
martedì 23 aprile, ore 20:30

La forma sarà quella di una cena che lasci aperto uno spazio per le incursioni dell’atto creativo dell’ospite. Ogni volta sapori, suoni, colori, profumi, consistenze nasceranno dall’incontro con un compagno di passeggiate diverso. Passeggiate reali. La speranza è quella di produrre nel dialogo e nella relazione un atto poetico unitario di cui essere tutti partecipi.
Un atto poetico in cui ci sia continuità tra sapori, gesti, segni, voci, suoni, consistenze, profumi.

Le cene/atto creativo verranno ospitate e apparecchiate nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja a Lecce.

info e prenotazioni:
info@cucinameridiana.com
info@teatrokoreja.it
tel. : +39.0832.242000
+39.0832.240752


Admir Shkurtaj, il riformatore albanese
di Mauro Marino
La prima volta che l'ho visto su un palco fu molti anni fa, primi anni Novanta, quando i Ghetonìa di Roberto Licci e Salvatore Cotardo avviarono la "rivoluzione"... Admir Shkurtaj era da poco giunto in Italia, in Puglia, con la prima Albania che tornava ad abitare nel Salento approfittando e favorendo i capovolgimenti del Mondo. Pochi ricordano, presi a far "storia" con gli scampoli delle cronache, ma molte cose iniziarono, anzi ri-iniziarono, con la testardagine dei "calimeresi" che, presi dal desiderio greco dell'andare avanti rimanendo affezionati al sè (che non è sempre e solo la Radice) da buoni esecutori e ascoltatori di suoni si misero a far sintesi, ed ecco, che vennero le prime innovazioni sulla scena della musica popolare di casa nostra: un albanese attrezzato di fisarmonica e una donna messa in front-line (magari con giubottino di pelle rossa, era Emilia Ottaviano) non a decoro coristico e a supporto della voce dellu masculazzu... et voilà la strada era aperta e via...
Insomma, la chiave, la sostanza, a mio modesto avviso, è in quel giovanotto ombroso e taciturno che aprì alla contaminazione, anzi no, meglio: ad un sentire comune che faceva spazio alla sensibilità dello "straniero" per far musica.
Nei Ghethonìa del tempo c'era già il sassofono del su citato Cotardo che appena poteva svisava in morbidezza nell'incanto di "fughe" che, alle parole, prestavano il paesaggio, lo sfondo, l'inquietuzine del jazz. Materia aperta quel far musica capace di sintesi, una formazione colta che, sull'onda lunga del la ricerca folklorica era pronta ad accompagnare il Salento verso il valico di fine Novecento.
Molto era stato compiuto e tanto sarebbe accaduto... Di quel tanto... molto è dovuto a Admir Shkurtaj...
Un gusto musicale, quello della sua terra d’origine fatto, di aperture corali, di scelte ritmiche, tonali e armoniche che molto concedono alla danza, alla coralità ma con Admir giunge in Salento anche l'impronta di una  cultura musicale capace di alta formalizzazione. Quella elaborata "paraticando" il rigore dei Conservatori Musicali d'oltreadriatico... lì non era uno scherzo studiare, fare arte. Disciplina e osservanza ci volevano, per servire il popolo ma anche per far rifugio al sentire dissidente. Non è sempre stata l'arte la prima ad agire il cambiamento? Lo sapevano anche loro nei Conservatori e nelle Accademie d'Albania studiando, studiando si prparavano... Lo sapeva Admir Shkurtaj che con quel groviglio di cognome (che prima d'impararlo a scriverlo...) partì e fu per noi un dono.
Adesso dopo tante esperienze lui - "talea" che ha fatto impianto - matura "Mesimér" un solo al pianoforte, accolto e prodotto da Anima Mundi (e da chi altri se no?). "Il mio primo amore per la composizione è stato Béla Bartók. - racconta Admir - Se nati e cresciuti in Albania è impossibile non essere legati alla tradizione musicale, a una così ricca tradizione. Abbiamo sempre visto l'infinito nella tradizione. Per quanto cerco di staccarmene e di incoraggiare altre forme di “amore per il suono”, lei appare sempre. Si mimetizza persino nello stridolio della porta arrugginita, nelle gocce d'acqua sulle superfici metalliche, nella somma del vociferare nelle strade. Si possono però intraprendere percorsi dai punti sparsi della propria esistenza. La materia te lo permette. Bisogna solo aprire le orecchie! Le proprie e di chi ascolta".
Non ho ancora sentito il disco mi affido delle note che lo accompagnano e con voi leggo: "Admir Shkurtaj, strumentista e compositore, vive il Salento ormai da vent'anni, tanto da conoscerne profondamente la cultura e da poterla percorrere nei rivoli più sotterranei. Come fa qui attraverso i temi di musica popolare che smonta e ricostruisce suono su suono, con la sua poetica centrata sul “gesto”, sulla “fluidità” del pensiero musicale e sulla “sceneggiatura sonora”. Le semplici melodie assumono di colpo sembianze insospettate, in un viavai continuo di travestimenti e rivelazioni".

 Admir Shkurtaj - Agapimu fidela protiní # 1 e 2
   http://www.youtube.com/watch?v=MwCY-X0C1_0
  Admir Shkurtaj - Aspro to chartí   http://www.youtube.com/watch?v=gu88PGHjiOY   
  Admir Shkurtaj - http://www.youtube.com/watch?v=4k32gIy75a8                                                                                                                                                                 

Admir Shkurtaj - Mesimer
di Salvatore Esposito (blogfoolk)

"Il mio primo amore per la composizione è stato Béla Bartók. Se nati e cresciuti in Albania è impossibile non essere legati alla tradizione musicale, a una così ricca tradizione. Abbiamo sempre visto l'infinito nella tradizione”
, così il musicista e compositore albanese, ma salentino di adozione, Admir Shkurtaj scrive nelle note di copertina di Mesimér, il suo album di debutto come solista, proprio ad evidenziare quel rapporto fortissimo che lo lega alla tradizione musicale della sua terra. Dopo aver iniziato la sua formazione musicale a Tirana, Shkurtaj nel 1991 si trasferisce a Lecce e da allora e ha intrapreso un personale percorso di ricerca che lo ha condotto attraverso lo studio del jazz e della musica contemporanea, passando per gli incroci tra la tradizione musicale salentina e quella balcanica. Proprio lui, infatti, è uno dei protagonisti di quel filone balkan salentino che ha visto in Opa Cupa, Talea e Ghetonìa, le sue massime espressioni. Proprio con il gruppo di Roberto Licci e Salvatore Cotardo, il musicista albanese, imbracciando la fisarmonica, diventa determinante per la caratterizzazione del loro sound, che li vede rileggere la tradizione della Grecìa Salentina attraverso la luce riflessa dei suoni provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. Il suo stile è così permeato dal suono della Terra delle Aquile, come scrive lui stesso: “E’ un fatto quasi inconscio, come scrive lo stesso Shkurtaj: “Per quanto cerco di staccarmene e di incoraggiare altre forme di “amore per il suono”, lei appare sempre. Si mimetizza persino nello stridolio della porta arrugginita, nelle gocce d'acqua sulle superfici metalliche, nella somma del vociferare nelle strade. Si possono però intraprendere percorsi dai punti sparsi della propria esistenza. La materia te lo permette. Bisogna solo aprire le orecchie! Le proprie e di chi ascolta”. Non ci sorprende, così, che per il suo disco di debutto Admir Shkurtaj abbia scelto di condurci nel cuore della sua ispirazione, e per farlo ha utilizzato un semplice pianoforte, selezionando tredici brani ed incidendoli nella Masseria Santa Lucia, nel borgo fantasma di Macurano, nelle campagne di Alessano (Le). Una scelta quest’ultima non casuale tanto per la bellezza e la suggestione del luogo, quanto per l’acustica, che esalta l’evocatività di ogni singola nota suonata. Brani autografi, canti tradizionali e pizziche vengono così destrutturate e ricostruite attraverso i canoni del jazz d’avanguardia e il peculiare stile pianistico del musicista albanese. Durante l’ascolto brillano l’inziale “Hyrie” firmata dallo stesso Shkurtaj, che ci introduce a due immaginifiche variazioni di “Agapimu Fidela Protini”, e alla splendida rilettura di “Aspro To Chartí”, tutte firmate da Salvatore Cotardo e provenienti dal repertorio dei Ghetonìa. Si prosegue con la “Tarantella del Gargano”, e il tradizionale greco “Selfo”, la cui esecuzione è ispirata da una copia de Il Manifesto del 21 gennaio 2012. Si torna al Salento prima con “To To To”, poi con “Comu è Bellu Cu Bai Pe' Mare”, in cui brilla l’ottimo assolo tra le due strofe, caratterizzate da una tonalità diversa da quella della melodia, fino a toccare la bella resa di “Kali Nifta” la cui melodia si apre alle influenze della rumba balcanica. Il vertice del disco è rappresentato da “Pizzica di Santa Lucia”, la cui rilettura si basa sul concetto di “gesto” con le dita che si rincorrono in modo naturale sulla tastiera seguendo il fluire dell’ispirazione, e la Pizzica di San Vito, dedicata all’indimenticato Giandomenico Caramia, e che si caratterizza per la particolarità della struttura che segue una immaginaria sceneggiatura sonora con cinque parti che si alternano. Suggella il disco la bella riproposizione di Luna Otrantina di Daniele Durante, le cui atmosfere notturne richiamano lo splendido cielo stellato salentino. Admir Shkurtaj con Mesimér ha dato vita ad un disco fascinoso ed originale da cui traspare non solo tutto il suo percorso musicale, ma anche la sua ricerca tra il suoni della musica contemporanea e del jazz.
                                                                                                                                                                   

Io cucinerò.

Un abbraccio.

Con sapore,
Biso

info e prenotazioni:
info@cucinameridiana.com
info@teatrokoreja.it
tel. : +39.0832.242000
+39.0832.240752


Vorremmo fossero esperienze collettive e per questo vi chiediamo una ritualità che comincia dalla puntualità: è un cammino che vogliamo fare insieme partendo ogni volta alle 20:30. E vi chiediamo di darci una mano nell’organizzazione prenotando per tempo entro sabato 20 aprile.
Cena/atto creativo: euro 25,00 a persona.
Numero massimo partecipanti 40 persone.




a cura di:
Cucina Meridiana
www.cucinameridiana.com
fb: cucina meridiana

in collaborazione con:
Cantieri Teatrali Koreja
Via G. Dorso, 70 - Lecce
www.teatrokoreja.it
fb: cantieriteatralikoreja

martedì 26 marzo 2013

fuoco nomade 2013: chelidonismata



Ho piedi resi ciechi dall’asfalto. Cuore irrancidito dall’abitudine. Mani che vogliono uscire a camminare. | Camminare. Nomade. |
Nomade è chi ha pozzi cui convergere e da cui partire. Pozzi raggiunti solo per essere lasciati. |

Camminare è nomade. | Un piede guida l’altro. Il cuore prende il ritmo e il respiro si accorda. |
La memoria e le fantasie si fanno spazio, si mescolano e si dissolvono poco fuori dal naso. Lo stomaco sputa veleni e incamera pensieri.

| I polmoni vogliono avere territori, non città. | Fino a che si fa sera e i reni si adagiano intorno ad un fuoco. Lingue di voci in compagnia di altre voci. |
Voci che all’alba annusano l’aria in cerca di un altro pozzo. |

Sarà cibo, saranno incontri. |
Sarà racconto. Musica. Segno. Voce. Gesto.
Sarà una messa a fuoco in movimento. | Sarà un fuoco nomade: ogni anno un fuoco per un territorio nuovo. |
Alla ricerca di pozzi che determinano sentieri; fuochi che facciano esistere altri territori. |
Pozzi o fuochi da raggiungere e in cui sostare ma solo per poi superarli. Per abitare territori.

| Per ridefinire incessantemente territori. |



La forma sarà quella di una cena che lasci aperto uno spazio per le incursioni dell’atto creativo dell’ospite. Ogni volta sapori, suoni, colori, profumi, consistenze nasceranno dall’incontro con un compagno di passeggiate diverso. Passeggiate reali. La speranza è quella di produrre nel dialogo e nella relazione un atto poetico unitario di cui essere tutti partecipi.
Un atto poetico in cui ci sia continuità tra sapori, gesti, segni, voci, suoni, consistenze, profumi.

Le cene/atto creativo verranno ospitate e apparecchiate nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja a Lecce.


Chelidonismata – il canto delle rondini
Territorio: processo, attimo
secondo incontro di fuoco nomade 2013

Enza Pagliara e il coro della tavola (voci)

Antongiulio Galeandro (suoni)
Biso (sapori)

presso Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
martedì 26 marzo, ore 20:30



Avviso ai partecipanti: lunedì 25 marzo Enza Pagliara ci invita tutti a partecipare al suo laboratorio di canto per preparare “il coro della tavola” che sarà parte centrale per l’atto creativo del 26. è gratuito e si svolgerà presso i Cantieri Teatrali Koreja. Vi invitiamo a non mancare.




Enza Pagliara è tra le più conosciute interpreti a livello internazionale di musica di tradizione salentina, grazie a una fitta attività discografica e concertistica e alle collaborazioni con ensemble come Assurd e Orchestra Notte della Taranta. Nata a Torchiarolo, paese al confine tra le province di Brindisi e Lecce, la cantante ha saputo portare con rispetto la cultura musicale della propria terra oltre il naturale contesto sociale e familiare dove, per trasmissione diretta, l'ha spontaneamente appresa. Da quindici anni canta sui palchi del mondo intero, dalla Cina al Brasile, le arie della cultura popolare del Salento, fatta di canti epico-lirici, leggende, serenate, dialoghi improvvisati in forma di stornelli, invocazione di santi per le guarigioni.



Ma non è il curriculum che ci interesserà il 26 marzo.

Anche questa volta quello che più ci interessa è la ricerca di domande che cercheremo di condividere con lei. E scopriremo Enza esprimere le domande che addensano la sua voce attraverso un repertorio che va al di là della tradizione salentina .






Ci accompagnerà in questa passeggiata anche Antongiulio Galeandro, fisarmonicista, polistrumentista e compositore.  Autore di colonne sonore per i films Radio Egnatia di Davide Barletti (2008); Fine Pena Mai di Davide Barletti e Lorenzo Conte, (2008 classic srl paradise film verdeoro); Non C'era Nessuna Signora a Quel Tavolo di Davide Barletti e Lorenzo Conte (2010 fluid Produzioni e Mediateca del Mediterraneo Produzioni) ; Un ritratto di Ettore Scola di Davide Barletti e Lorenzo Conte (2012 Raieducational, Raistoria); Il debito della democrazia di Davide Barletti (2012 fluid produzioni); Theo Angelopoulos, Il poeta del Tempo di Davide Barletti e Edoardo Cicchetti, (2012 Fluid Produzioni). Autore di musica per danza contemporanea: Passo Continuo 2003 coreografia di Mauro Bigonzetti – Aterballetto Reggio Emilia; Canto di Orfeo, 2012 musiche di Galeandro A. Vetrone C. Coreografia di Mauro Bigonzetti - Aterballetto Reggio Emilia Pietra Viva, 2012 coreografie di M. Bigonzetti- Gauthier Dance Stuttgart ; Orecchiette – Whats a wonderful world, 2008 di Giuseppe Ciciriello, Enrico Messina e Micaela Sapienza - Armamaxa Teatro. Ha collaborato con Mimo Danza Alternativa di Roma per le coreografie di Aurelio Gatti, e con la Companhia Nacional de Bailado di Lisbona. Ha suonato ed inciso con Quintetto X, Folkabbestia,  Al Darawish, Zamballarana(Corsica, Francia), Fanfara Populara, Enza Pagliara, Raffaella Aprile. Collabora col centro "Casamusicale" di Pigna (Corsica), Francia.











Io cucinerò.

Un abbraccio.

Con sapore,
Biso





info e prenotazioni:
info@cucinameridiana.com
info@teatrokoreja.it
tel. : +39.0832.242000
+39.0832.240752


Vorremmo fossero esperienze collettive e per questo vi chiediamo una ritualità che comincia dalla puntualità: è un cammino che vogliamo fare insieme partendo ogni volta alle 20:30. E vi chiediamo di darci una mano nell’organizzazione prenotando per tempo entro sabato 23 marzo.
Cena/atto creativo: euro 25,00 a persona.
Numero massimo partecipanti 40 persone.

Prossime cene/atto creativo  in programma:


martedì 23 aprile, ore 21:30. Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
La lettera bucata
Territorio: causalità, simultaneità

Admir Shkurtaj (piano, fisarmonica, oggetti, suoni)
Biso (sapori)



a cura di:
Cucina Meridiana
www.cucinameridiana.com
fb: cucina meridiana

in collaborazione con:
Cantieri Teatrali Koreja
Via G. Dorso, 70 - Lecce
www.teatrokoreja.it
fb: cantieriteatralikoreja

martedì 26 febbraio 2013

fuoco nomade 2013 - le vie dei canti







Ho piedi resi ciechi dall’asfalto. Cuore irrancidito dall’abitudine. Mani che vogliono uscire a camminare. | Camminare. Nomade. |
Nomade è chi ha pozzi cui convergere e da cui partire. Pozzi raggiunti solo per essere lasciati. |

Camminare è nomade. | Un piede guida l’altro. Il cuore prende il ritmo e il respiro si accorda. |
La memoria e le fantasie si fanno spazio, si mescolano e si dissolvono poco fuori dal naso. Lo stomaco sputa veleni e incamera pensieri.

| I polmoni vogliono avere territori, non città. | Fino a che si fa sera e i reni si adagiano intorno ad un fuoco. Lingue di voci in compagnia di altre voci. |
Voci che all’alba annusano l’aria in cerca di un altro pozzo. |

Sarà cibo, saranno incontri. |
Sarà racconto. Musica. Segno. Voce. Gesto.
Sarà una messa a fuoco in movimento. | Sarà un fuoco nomade: ogni anno un fuoco per un territorio nuovo. |
Alla ricerca di pozzi che determinano sentieri; fuochi che facciano esistere altri territori. |
Pozzi o fuochi da raggiungere e in cui sostare ma solo per poi superarli. Per abitare territori.

| Per ridefinire incessantemente territori. |





La forma sarà quella di una cena che lasci aperto uno spazio per le incursioni dell’atto creativo dell’ospite. Ogni volta sapori, suoni, colori, profumi, consistenze nasceranno dall’incontro con un compagno di passeggiate diverso. Passeggiate reali. La speranza è quella di produrre nel dialogo e nella relazione un atto poetico unitario di cui essere tutti partecipi.
Un atto poetico in cui ci sia continuità tra sapori, gesti, segni, voci, suoni, consistenze, profumi.

Le cene/atto creativo verranno ospitate e apparecchiate nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja a Lecce.


Le vie dei canti
Territorio: estensione, durata
primo incontro di fuoco nomade 2013

Italo Chiodi
(segni e parole)
Biso (sapori)

presso foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
martedì 26 febbraio, ore 21:30



Italo  Chiodi é nato nel ‘61 a Villa d'Ogna (Bg).
Vive e lavora a Bergamo.
Ha insegnato in diverse Accademie italiane, compresa quella di Lecce.
Oggi insegna disegno presso l'Accademia di Brera (Mi) e sta portando avanti un dottorato  di ricerca presso l’università di Belle Arti di Granada, Spagna.
Dal 1986 la sua attività artistica lo ha portato a fare mostre ed esperienze in diverse parti d'Italia e all'estero.
Ma non è il curriculum che ci interesserà il 26 febbraio
http://www.italochiodi.net/flash_ic/italochiodi.html

Piuttosto è la ricerca di domande che cercheremo di condividere con lui.

http://video.corriere.it/leggere-segno/109412

http://www.youtube.com/watch?v=ym8VlvSjOcE


Io cucinerò.

Un abbraccio.

Con sapore,
Biso

info e prenotazioni:
info@cucinameridiana.com
info@teatrokoreja.it
tel. : +39.0832.242000
+39.0832.240752


Vorremmo fossero esperienze collettive e per questo vi chiediamo una ritualità che comincia dalla puntualità: è un cammino che vogliamo fare insieme partendo ogni volta alle 21:30. E vi chiediamo di darci una mano nell’organizzazione prenotando per tempo entro lunedì 25 febbraio.
Cena/atto creativo: euro 25,00 a persona.
Numero massimo partecipanti 40 persone.

Prossime cene/atto creativo  in programma:

martedì 26 marzo, ore 21:30. Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
Chelìdonismata
Il canto delle rondini
Territorio: processo, attimo

Enza Pagliara e il suo coro
(voci)
Biso (sapori)

martedì 23 aprile, ore 21:30. Foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
La lettera bucata
Territorio: causalità, simultaneità

Admir Shkurtaj (piano, fisarmonica, oggetti, suoni)
Biso (sapori)



a cura di:
Cucina Meridiana
www.cucinameridiana.com
fb: cucina meridiana

in collaborazione con:
Cantieri Teatrali Koreja
Via G. Dorso, 70 - Lecce
www.teatrokoreja.it
fb: cantieriteatralikoreja




martedì 1 gennaio 2013

pentatonica 2013









La pentatonica nel frigo 2012-2013
« incontri casa-casa tra uomini ai fornelli»


Ci incontreremo per cucinare. e allo stesso modo cucineremo per incontrare.

Incontreremo dei personaggi familiari ma non conosciuti. Proveremo a trarre confidenza e consapevolezza da questi incontri.
E allora innanzitutto e per cominciare incontreremo il cuoco: hai mai pensato sino in fondo a chi è? hai mai osservato le sue mani? hai mai pensato al cuoco come ad un abitante di confini ?
Poi sarà la volta de la Tradizione, de gli Ingredienti, de gli Ospiti, de le Manicheproducono. Tutti personaggi che risuonano familiari, ma di cui, se ci pensi bene, non sei veramente intimo. Ci lasceremo guidare da questi incontri per creare convivialità.

Tutto questo lo faremo cucinando e cominciando ad abitare le prime pieghe di quel piano creativo che è il cucinare. Condividere convivialmente le tecniche necessarie a poter - in ogni occasione, in ogni cucina, per ogni intuizione - essere capaci cucinando di creare convivialità, comunicare un'emozione, stimolare pensiero, suscitare stupore, generare dubbi.
Solleticare il gusto. È questione di domande, non di risposte.
Tutto ovviamente, sempre, con sapore.
 
Gli incontri si svolgeranno a rotazione nella cucina dei partecipanti con inizio alle ore 16:00 puntuali (in modo da metterci a tavola tranquillamente tra le 21:00 e le 21:30). Chi tra noi sarà incaricato di mettere a disposizione la cucina - l'oste -, dovrà anche occuparsi di preparare una piccola colonna sonora che accompagni e permei l'incontro: la musica spesso in cucina crea fili a cui sospende tracce.
Io e l'oste ci occuperemo insieme - al mattino -  di andare a comprare gli ingredienti necessari cercando il più possibile di fare riferimento a produttori locali che perseguano una agricoltura/allevamento biologico, ecosostenibile ed etico. In questo modo ci daremo l'occasione di mettere in comune ed in rete i produttori di cui noi singolarmente ci fidiamo (quella che si chiama certificazione partecipata). Anche questo sarà un tesoro caro che ci porteremo dietro alla fine del ciclo dei nostri incontri. È questione di domande, non di risposte.
Nel caso l'oste sia impossibilitato per motivi personali a partecipare alla spesa, me ne occuperò direttamente io facendo riferimento per quanto possibile all'Azienda Agricola Biologica Piccapane di Cutrofiano.

Per quanto riguarda le ricette, io avrò un percorso e tracce di massima che ci guideranno inizialmente: gli incontri, poi, saranno il luogo dove potranno nascere divagazioni ed esigenze da cui trarre ispirazione per la cucina dell’incontro successivo. Possiamo cominciare il primo incontro preparando un menù fatto di due portate. Poi a partire dal secondo incontro decidere se aggiungere una portata e fare un menù completo. Con il naso sempre rivolto alla stagione e alle persone.

Ad ogni incontro inviterò alla tavola anche una persona con cui compartiremo il cibo e con cui proveremo a condividere e aprire storie, vite, manualità, mestiere. Proveremo ad abitare luoghi comuni. Proveremo a interrogare abitudini. Con cui proveremo a non chiudere il cerchio: è questione di domande, non di risposte.

Per quanto riguarda i costi, abbiamo stabilito 15,00 € ad incontro più il contributo per la spesa.
Ogni gruppo per ragioni di praticità non sarà composto da più di 6 persone.

L’attrezzatura da cucina sarà messa a disposizione dall’oste tenendo conto del fatto che io comunque arriverò con la mia piccola cucina mobile al seguito.

Vi abbraccio

Con sapore,
Biso


Calendario degli incontri a partire da Gennaio (date da stabilire in base alle disponibilità):

I° incontro:
Chi è il Cuoco

II° incontro:
Chi è la Tradizione

III° incontro:
Chi sono gli Ingredienti

IV° incontro
Chi sono gli Ospiti

V° incontro
Chi sono le Manicheproducono

VI° incontro: tavola della convivialità
Cucineremo tutti insieme un pasto per gli amici e per chi avrà piacere di condividere

domenica 15 gennaio 2012

Pezzetti di cavallo alla maniera delle famiglie rom-salentine




I popoli romanì a forza di essere nomadi si obbligano e si dispongono agli incontri; il Salento a forza di essere Mediterraneo aggrappato alle rocce d’Europa si è obbligato e si è disposto all’attraversamento, al limitare e alla commistione. C’è una sorta di complementarietà in questo disporsi: c’è da una parte l’invito al cammino, all’essere vento  e dall’altra l’invito a farsi attraversare, al lasciarsi segnare.  E alla fine è come un invito al vento quello che si respira: c’è l’invito romanì a sciogliersi come vento e inseguire l’altrove anche quando il battere è lento e radicato; c’è l’invito salentino ai venti densi di brandelli di altrove a lasciarsi irretire, rallentare e condensare prima che si possano dissolvere.

.


È stato un pomeriggio di allegra convivialità: trascorrere alcune ore a parlare di cucina con le signore della comunità rom-salentina di muro Leccese è stato piacevole. Il loro parlare musicale viaggiava senza posa tra ricordi di feste danzanti apparecchiate intorno a grandi tavolate contrappuntati da disquisizioni su “stanati” di parmigiana di melanzane al forno; tra gridolini di eccitazione per l’evocazione di un sapore oramai dimenticato; tra occhi sorpresi dall’interesse di “uno del nord” per le usanze, i colori, i profumi e le storie di persone che vivono in un sud percepito lontano; tra il clangore di clamorose eclettiche clausure sfuggite claudicando per l’affaticamento delle consuetudini climatiche; tra i sospiri di una rassegnazione che ha le tonalità cromatiche di un destino; tra quel sorriso dietro gli occhi che annuncia chiaramente che il destino è lievito.
È in un pomeriggio come questo che mi è stato fatto dono da queste imponenti e contegnose madri delle famiglie rom-salentine della ricetta dei pezzetti di cavallo al sugo. E se mi trovo adesso a raccontarla è perché da quelle famiglie mi è venuta una richiesta esplicita di rendere questo dono nomade: mi è stato chiesto di sradicare questo sapore e di portarlo in giro, là,ovunque incontri vite in grado di condividerlo e assaporarlo.
C’è durezza e sofferenza nel dover raccontare un piatto che abbia come cuore parti di un animale. Ma in contesti come quello in cui è nata questa ricetta, non si è mai trattato di scelte etiche o morali. Si è trattato innanzitutto di sopravvivenza. E poi, ma solo poi, commercio.
Non è il caso, né quel pomeriggio né adesso, di attraversare pensieri come questo che porterebbero molto lontano. Solo mi sento di dire che mai ho avvertito durante il nostro colloquiare di cibo, quel senso di irrispettoso specismo che fa sussultare e che spinge verso scelte alimentari basate su valori etici.
La dignità dell’animale, il rispetto nei suoi confronti, l’essere parte di una relazione naturale comune è sempre risuonato sullo sfondo. Per questo non mi sono sentito sacrilego. Anzi, ho avvertito come una sorta di sacralizzazione.
L’animale scelto per questo rito era sempre un cavallo anziano e molto vicino alla fine della sua vita. Veniva macellato e nel racconto di questo mi è arrivato forte il senso del sacrificio inteso nel suo significato etimologico di “rendere sacro”: come se si volesse innalzare e rendere saldo e viscerale il rapporto che si era instaurato.
Racconto senza giudizio.
La carne poi veniva fatta bollire in acqua con alloro e sale schiumando ogni volta che era necessario. Sobbolliva nell’acqua aromatizzata fino a quando pungendola con una forchetta, questa non penetrava con una certa disinvoltura nella carne. Oggi diremmo sino a metà cottura.
A quel punto la si toglieva dall’acqua che però veniva conservata per terminare eventualmente la cottura. In un tegame veniva scaldato dell’olio in cui si faceva rosolare aglio e cipolla. Quando quest’ultima era appassita ed imbiondita, sia aggiungeva un poco di peperoncino “amaro”. Poi toccava ai pezzetti di carne che venivano fatti rosolare in questo olio sino a che non acquisivano screziature ambrate. A quel punto vino a sfumare, preferibilmente bianco. Adesso era il momento di aggiungere sugo di  pomodoro rigorosamente cotto precedentemente sobbollendo almeno quattro ore.
A fuoco basso si lasciava la carne di cavallo cuocere per almeno un’altra ora e mezza. Se il liquido di cottura si assorbiva troppo, si aggiungeva mano a mano l’acqua di bollitura della carne che era stata messa da parte in precedenza.
A fine cottura il tegame veniva portato sul tavolo ed accolto da tutta la famiglia, la larga famiglia rom-salentina, riunita intorno alla grande tavolata per fare festa, per rendere sacro il giorno. E così ricominciava quel parlare musicale, quei gridolini di eccitazione. E poi vino. E poi musica. E poi danze.

Nella sacralità del rispetto c’è anche la non quantificazione delle dosi: non c’è spersonalizzazione nella tradizione. Si è prima della codificazione. Si è ancora in quell’ambito in cui la relazione con la presenza, la consapevolezza dell’atto rituale che si va compiendo definisce l’agire. Si è ciò che si fa al di là di codici oggettivizzanti.

Viene da sé che questo non è mai stato nella tradizione rom-salentina una piatto “tradizionale” nell'accezione dell'essere consumato tutti i giorni: era un sacrificio e quindi era un rito occasionale, legato ai tempi della vita e del convivere. Anche questo deve essere detto. Anche questo deve fare riflettere.

pubblicato su Il Paese Nuovo del 24 giugno 2012


lunedì 14 novembre 2011

Flan di pecorino e pere con vellutata di cicureddhe


« Sanngetall »
Un respiro in cinque movimenti


I° movimento – Prologo. Il bisogno

Respira Gregor, respira.
Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall'inferno. È per questo che ho speso parte della mia vita sui libri: per trovare soluzioni che mi facessero fuggire dall’inferno. Mi chiamo Gregor, sono mio malgrado nato tra i monaci. Ho consumato anni della vita aggrappato ai miei occhi. Attaccarmi alla voce degli occhi mi teneva legato alle parole, alle immagini ad una superficie dispiegata e uniforme; era il mio antidoto all’abitare il vuoto, l’inferno. Ascoltare le parole silenziava il vuoto e offuscava l’inferno. Capitava a volte che la vista mi abbagliasse, mi riducesse alla disperazione; portasse via la mia memoria; annichilisse la mia mente e il mio cuore; mi trasformasse in qualcuno che è assente e che conosce di essere assente e si vede ad inseguire il suo essere, come un uomo morto a fianco di uno vivo che non è più se stesso, ma che insiste che l’uomo morto sia presente anche se non può più rientrare in esso. E così soffrivo. Soffrivo perché nonostante tutto, non riuscivo a colmare con gli occhi lo spazio che separa la terra dal cielo. Tutto restava vuoto. È successo poi che, dopo una lunga e ripetuta serie di visioni di parole sono rimasto assolutamente incapace di lavorare e pensare percependo a stento di essere vivo. Inerme brancolavo in un vuoto uniforme luminoso bagliore. Questo era il mio presente.
Respira Gregor, respira.

II° movimento – La seduzione

Mi sono consumato la vista ad inseguire parole. E in questo inseguimento, cercare senso. Era come scivolare su di una superficie dispiegata, indistinta e così lucida che abbagliava. Chiedevo agli occhi pietà. Ma non c’era pietà. Chiedevo loro che riempissero quel vuoto che mi lacerava. Ma i miei occhi in tutto quel bagliore si contorcevano. Si ancoravano a parole che non risuonavano: ancorati gli occhi, ancorato io. Mi trasformavano in solida pietra, ma finalmente mi tenevano fuori dal vuoto. Sino a quando tutto ha cominciato a vibrare. Sino a quando una parola ha cominciato a girare negli occhi. È emersa e subito si è insinuata nel movimento degli occhi. Voluttuosa, dagli occhi è caduta sfiorandomi delicatamente senza fare pressione sino al naso e poi alla gola ha rallentato disegnando leggeri soffici cerchi concentrici e poi su, su fino al cervello dove si è fermata un poco più a lungo diffondendo calore fino a scivolare irruenta e bramosa giù nei polmoni aprendoli con forza e poi chiudendoli e aprendo e chiudendo aprendo e chiudendo aprendo e chiudendo provocando un ritmato respiro che si è dissolto estenuato e lieve in un prolungato rotondo armonico e fragile suono. Era un suono che allargava gli spazi e squarciava con timidezza il bagliore. Un suono che mi ha sedotto e che mi ha aspirato in quel vorticoso infernale vuoto obbligandomi ad abitarlo. È stata la seduzione di questa parola che mi ha obbligato ad abitare per la prima volta questo vuoto da cui fuggivo.

III° movimento – La tensione

Abitare questo vuoto voleva dire fare i conti con il mio presente, con i miei occhi, con ciò che fino a questo punto mi aveva impedito di abbandonarmi al vuoto. Adesso, seduto nel vuoto, compresi che un tempo era giunto. Dovevo rendere sacra la vista per distoglierla dal radicamento e creare uno spazio da cui io, e solo io, affacciarmi al cielo e alla terra. E così ho fatto, ho reso sacro, ho sacrificato un occhio. Non è stato semplice. Ci vuole di essere liberi per scegliere di cavarsi un occhio. E ci vuole disciplina. Attenta e ribelle disciplina. Mi sono alzato. Ho sperato che il ritornare di quel suono seducente mi narcotizzasse. Ho lasciato che il ritmo del respiro rallentasse. Che il pensiero sparisse. Ecco, il cuore è silente. L’occhio dorme … Ho appoggiato silenziosamente i polpastrelli del pollice, dell’indice e del medio della mano destra sull’occhio. Respira, Gregor, respira. Una decisa pressione con repentina rotazione antioraria e l’occhio se ne è venuto, senza lacrimare sangue. Ed è stata poesia. Questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni, che dà colori nuovi. La poesia è una semivisione, una semicecità che piega. Che crea tensione. Piega la terra al cielo. Tende il cielo alla terra. Questa semivisione, questa semicecità è sapienza. È sapere che solo il proprio cammino, il proprio unico individuale cammino se si manifesta, piega la terra al cielo, tende il cielo alla terra. Ora comprendo: «Non sia un altro chi può essere se stesso», era la poesia con cui quella parola aspirante mi aveva sedotto. Vivere è un atto poetico. Vivere è ribellarsi liberamente alle abbaglianti uniformità dispiegate. Vivere vuol dire conoscere tutte le proprie potenzialità ed attuarle. Vivere è scegliersi. Scegliersi è un atto poetico. Vivere è un atto poetico. Da ripetere.

IV° movimento – Il profumo

Ma ancora soffrivo. La poesia mi aveva donato un nuovo rapporto con le parole, con la vista. Un nuovo stare tra cielo e terra. Ma non mi aveva affrancato. Erano poetici, ma erano pur sempre segni. Trappole per quell’occhio solitario. Stavo peggiorando velocemente: stavo ammalandomi. Ero bloccato, quasi radicato. Si producevano sul mio corpo ferite per lesioni da contatto con le parole. «Potrei andare oltre se solo qualcuno mi dicesse le cose giuste. Potrei completarmi integralmente se solo qualcuno mi indicasse una rotta». Mi laceravo con queste parole. Mi ferivo per la vicinanza di queste parole. Ma di li a poco, fu ancora seduzione. Toccò al profumo di una parola sedurmi. E la seduzione fu totale. Non potei sottrarmi a quel profumo: il profumo è fratello del respiro. Il profumo penetra: ad esso non si resiste se vuoi vivere. Ed in quel profumo compii il secondo sacrificio, resi sacro l’altro occhio. Mi lavai bene con acqua fresca. Provai a distendere i muscoli del braccio. Respira Gregor, respira. Cercai l’occhio con la mano; trattenni il fiato e con un gesto lo sfilai con risolutezza e consapevolezza. Sentii solo una goccia scivolare lenta e calda sino al labbro inferiore. Profumava. Preferii non asciugarla. Fu cecità. Finalmente il bagliore fu lacerato. Questa cecità, questa visione, questo abitare il vuoto, liberò spazio. Creò silenzio. Mi abbandonai fiducioso a quel profumo. Un profumo ricco di seduzione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non potei rifiutarne la forza. Mi penetrò come l’aria che respiravo: penetrò i miei polmoni, mi riempì, mi dominò totalmente. Non ci fu modo di opporvisi. Fu come lasciarsi condurre da un cavallo cieco che intuisce il vero. Spinto dall’impeto di questo sicuro cavallo cieco tirai e piegai per nove giorni consecutivi la superficie prendendo coscienza di tutte le mie potenzialità. C'era una benevolenza infinita in quel galoppo, c'erano tenerezza, commozione e la profondità vuota e sciocca di chi ama. Fu la leggerezza dell’abbandonarsi. Fu il profumo inebriante della consapevolezza. Fu il mio integrale completamento.
Respira desso Gregor, respira.

V° movimento – Epilogo. Ritornare

Adesso devo raccogliere tutto. Devo raccogliere il primo occhio. Devo ridonare corpo al mio corpo. Devo nuovamente fare voce in questo vuoto per poter essere cielo e terra. Per poter ripetere il vivere come atto poetico. Con consapevolezza. Recuperare anche l’altro occhio per rigettarmi e tornare nuovamente in quel presente da cui ero stato aspirato: non posso raggiungere l'individuazione, la mia piena realizzazione senza il senso di connessione con gli altri. Devo tornare allo stesso presente ed essere presente. Finché nuovamente qualcosa dispiegherà la mia superficie. E allora dovrà ritornare il cerchio: sarà la seduzione che mi sradicherà, che mi farà vorticare, che mi spingerà perché da un presente possa eternamente tornare ad un rinnovato presente. Alla ricerca dei miei limiti oltre i limiti imposti dal bagliore. Per poi ancora ritornare. Non possiamo raggiungere l'individuazione senza il senso di connessione con gli altri, e d'altro canto è impossibile avere rapporti veri con gli altri senza aver raggiunto l'individuazione: ecco l’eterno ritornare del presente.

Quando? Adesso. Dove? Sempre.

Gregor vi saluta,
con sapore.

.



Kai, questo te lo devo proprio.
Il racconto di come è nato questo piatto te lo devo come si deve un grazie.

Si chiama «Sanngetall», “che intuisce il vero”, che abita la tensione.

«Sanngetall» è uno degli appellativi di Odino, il dio della poesia. E la tensione era ciò che dovevamo raccontare quel giorno.
Lo dovevamo io, e i quattro della compagnia: pere, cicorielle selvatiche, pecorino, funghi cardoncelli.
Ci riunimmo e dissi loro che abitando la tensione avevo avuto un’intuizione. E di quell’intuizione una sua visione: avevo visto Odino, il dio della poesia, fare dono di un occhio per riceverla.
Non avevamo ancora una drammaturgia. Da questa immagine dovevamo partire: io per la regia; gli attori per costruire i personaggi.
Poi come al solito avremmo montato tutto insieme attuando le dovute modellazioni. Avremmo avuto la drammaturgia come risultato e non come premessa.
Ci annusammo e ci salutammo. Decidemmo di lasciar passare due giorni di reciproca solitudine.
Passarono i due giorni e tutti tornammo.
Ci annusammo calorosamente ed ognuno cominciò a condividere la proprio esperienza dell’abitare la tensione sotto la luce dell’intuizione che avevamo condiviso.
Le cicorielle selvatiche si presentarono mettendo in scena una vellutata. L’immagine della poesia e della tensione aveva creato in loro il desiderio di rotondità, quasi a compensare, quasi ad incrementare la differenza di potenziale con la loro spigolosità. Tensione tra rotondità e spigolosità. Si trattava innanzitutto per loro di raccogliersi insieme per raggiungere per lo meno il peso di 500g. Successivamente buona parte della loro azione ruotava sulle pratiche di pulizia e lavaggio. Riti di purificazione. Loro, le cicorielle si facevano pulire dalla terra che prima le aveva scaldate e adesso le accompagnava e si lasciavano lavare da mani sapienti. A quel punto, belle bagnate si tuffavano in poca acqua bollente, giusto il tempo di diventare morbide. Una veloce danza nel bicchiere di un minipimer per allentare le tensioni delle loro fibre e diventare cremose. Si sedettero per assistere all’azione degli altri.
Toccò ai cardoncelli che a loro volta si sono offrirono interpretando un classico del loro repertorio: i cardoncelli trifolati. Al momento non capii la scelta. Comunque si trattava di un movimento di 1 Kg di cardoncelli che attraverso il rito del lavaggio e della pulizia passando per la scomposizione della loro identità con l’aiuto di una lama li accompagnava in un'arena in cui aspettavano olio caldo, aglio e peperoncino. E questo chilogrammo di cardoncelli danzò sino a quando il suo essere non si fu intenerito. Anche questo personaggio messo in scena, come per le cicorielle, raccontava della tensione insita nel mutamento del proprio essere.
Pere e pecorino invece, essendo da poco andati a vivere insieme, portarono un lavoro a due. Scelsero di mettere in scena un dialogo, considerato da loro luogo di eccezione della tensione: tensione semantica, tensione emotiva, tensione che si risolve, tensione che si manifesta.
Lui, un bel pezzo di pecorino di mezza età che pesa 200g, decisamente terreno nel suo manifestarsi, dialogava romantico con una pera, truccata da Abate, inscenando anche un rapporto corporale di crudità naturale tra i loro corpi nudi. La tensione del corpo nel dialogo. Questo non ci convinceva molto. All’interno delle narrazioni proposte dagli altri risultava un po’ esterno. Ma che dialogassero lui, pecorino e lei, la pera, che dialogassero cielo e terra in un'unità che si proponeva per creare una ulteriore unità, ci piaceva. E ci convinceva.
Comunque decidemmo che alla fine il materiale c’era ed era anche di buon livello. Si prospettava un atto creativo dignitoso. Procedemmo.
Dovevamo montare il tutto modellando le parti che non fluivano. A quel punto si trattò solo di realizzare la scena. Attrezzisti, luciai, macchinisti: furono tutti convocati.
Farina integrale di farro e olio extravergine di oliva si unirono per creare una crema che accolse sul fuoco le cicorielle a crema offrendo loro una perfetta scenografia di rotondità.
Per il pecorino e la pera fu un po’ più complicato. Volevamo mantenere la loro idea di dialogo, ma nel contesto necessitavamo di renderlo in modo diverso. La tensione cielo-terra era quello che volevamo mantenere. La loro nudità doveva essere espressa in un contesto che mettesse in gioco anche un aspetto erotico e spostasse l’attenzione dalla immediatezza del corpo a quella della materia e dello spirito. Allora decidemmo di incaricare le uova di costruire insieme alla farina e all’olio un telaio che contenesse la pera ammorbidita dallo zucchero come un vivente contiene il cuore. Il risultato fu stupefacente. Il corpo possente del pecorino raccoglieva all’interno con una freschezza erotica il cuore morbido, struggente di una pera.

Ah! che meraviglia l’opera degli attrezzisti nelle cucine! Che incredibile lavoro di sostegno e materializzazione funzionale delle intuizione che svolgono.
Come Kai? Chi sono gli attrezzisti?
Le uova sono attrezzisti. E forse anche la farina? E lo zucchero? E che dire dell’olio extravergine di oliva? E dell’affaccendarsi continuo del forno e dei fornelli?
Questi sono pensieri che mi porterebbero via, Kai. Mi porterebbero lontano in un roteare di intuizioni ed emozioni. Ne parleremo la prossima volta. Adesso devo ritornare al racconto di quel giorno.

Mancava ancora un po’ di luce sulla scena.
Questo ci sembrò chiaro a tutti.
Furono i funghi cardoncelli a proporsi come creatori di una cupola che illuminasse la scena: adesso era chiaro perché si erano proposti in quella loro semplicità: lo avevano fatto per mettere nel gioco la tensione che l’abitare genera al contatto con l’abitudine, con il già visto. Chiesero solo che per evidenziare una luminosità che mancava, si potessero chiamare tre patate che, scomposte in piccoli fiammiferi e passate in olio bollente, si rendessero croccanti.
Si. Così ci piaceva. Così fluiva.
E così montammo lo spettacolo: sulla base della scodella la vellutata di cicorielle su cui si adagiava il tortino di pecorino dal cuore di pera che veniva custodito sul capo dai funghi trifolati e illuminato ancora più in alto dalla patata fritta.

La musiche nel piatto erano quelle di Barbara Strozzi

E andammo in scena. Quel giorno.

Il risultato lo hai vissuto, ed è stato come connettersi.

Ti abbracciamo tutti e ti ringraziamo per aver infuso in tutto questo lavoro l’energia di una vita resa felice per mezzo della condivisione.

Vivi felice.
Con sapore,
Biso

P.s.: Kai, anche Uri Caine e Paolo Fresu alla fine si sono occupati di Barbara Strozzi