lunedì 14 novembre 2011

Flan di pecorino e pere con vellutata di cicureddhe


« Sanngetall »
Un respiro in cinque movimenti


I° movimento – Prologo. Il bisogno

Respira Gregor, respira.
Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall'inferno. È per questo che ho speso parte della mia vita sui libri: per trovare soluzioni che mi facessero fuggire dall’inferno. Mi chiamo Gregor, sono mio malgrado nato tra i monaci. Ho consumato anni della vita aggrappato ai miei occhi. Attaccarmi alla voce degli occhi mi teneva legato alle parole, alle immagini ad una superficie dispiegata e uniforme; era il mio antidoto all’abitare il vuoto, l’inferno. Ascoltare le parole silenziava il vuoto e offuscava l’inferno. Capitava a volte che la vista mi abbagliasse, mi riducesse alla disperazione; portasse via la mia memoria; annichilisse la mia mente e il mio cuore; mi trasformasse in qualcuno che è assente e che conosce di essere assente e si vede ad inseguire il suo essere, come un uomo morto a fianco di uno vivo che non è più se stesso, ma che insiste che l’uomo morto sia presente anche se non può più rientrare in esso. E così soffrivo. Soffrivo perché nonostante tutto, non riuscivo a colmare con gli occhi lo spazio che separa la terra dal cielo. Tutto restava vuoto. È successo poi che, dopo una lunga e ripetuta serie di visioni di parole sono rimasto assolutamente incapace di lavorare e pensare percependo a stento di essere vivo. Inerme brancolavo in un vuoto uniforme luminoso bagliore. Questo era il mio presente.
Respira Gregor, respira.

II° movimento – La seduzione

Mi sono consumato la vista ad inseguire parole. E in questo inseguimento, cercare senso. Era come scivolare su di una superficie dispiegata, indistinta e così lucida che abbagliava. Chiedevo agli occhi pietà. Ma non c’era pietà. Chiedevo loro che riempissero quel vuoto che mi lacerava. Ma i miei occhi in tutto quel bagliore si contorcevano. Si ancoravano a parole che non risuonavano: ancorati gli occhi, ancorato io. Mi trasformavano in solida pietra, ma finalmente mi tenevano fuori dal vuoto. Sino a quando tutto ha cominciato a vibrare. Sino a quando una parola ha cominciato a girare negli occhi. È emersa e subito si è insinuata nel movimento degli occhi. Voluttuosa, dagli occhi è caduta sfiorandomi delicatamente senza fare pressione sino al naso e poi alla gola ha rallentato disegnando leggeri soffici cerchi concentrici e poi su, su fino al cervello dove si è fermata un poco più a lungo diffondendo calore fino a scivolare irruenta e bramosa giù nei polmoni aprendoli con forza e poi chiudendoli e aprendo e chiudendo aprendo e chiudendo aprendo e chiudendo provocando un ritmato respiro che si è dissolto estenuato e lieve in un prolungato rotondo armonico e fragile suono. Era un suono che allargava gli spazi e squarciava con timidezza il bagliore. Un suono che mi ha sedotto e che mi ha aspirato in quel vorticoso infernale vuoto obbligandomi ad abitarlo. È stata la seduzione di questa parola che mi ha obbligato ad abitare per la prima volta questo vuoto da cui fuggivo.

III° movimento – La tensione

Abitare questo vuoto voleva dire fare i conti con il mio presente, con i miei occhi, con ciò che fino a questo punto mi aveva impedito di abbandonarmi al vuoto. Adesso, seduto nel vuoto, compresi che un tempo era giunto. Dovevo rendere sacra la vista per distoglierla dal radicamento e creare uno spazio da cui io, e solo io, affacciarmi al cielo e alla terra. E così ho fatto, ho reso sacro, ho sacrificato un occhio. Non è stato semplice. Ci vuole di essere liberi per scegliere di cavarsi un occhio. E ci vuole disciplina. Attenta e ribelle disciplina. Mi sono alzato. Ho sperato che il ritornare di quel suono seducente mi narcotizzasse. Ho lasciato che il ritmo del respiro rallentasse. Che il pensiero sparisse. Ecco, il cuore è silente. L’occhio dorme … Ho appoggiato silenziosamente i polpastrelli del pollice, dell’indice e del medio della mano destra sull’occhio. Respira, Gregor, respira. Una decisa pressione con repentina rotazione antioraria e l’occhio se ne è venuto, senza lacrimare sangue. Ed è stata poesia. Questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni, che dà colori nuovi. La poesia è una semivisione, una semicecità che piega. Che crea tensione. Piega la terra al cielo. Tende il cielo alla terra. Questa semivisione, questa semicecità è sapienza. È sapere che solo il proprio cammino, il proprio unico individuale cammino se si manifesta, piega la terra al cielo, tende il cielo alla terra. Ora comprendo: «Non sia un altro chi può essere se stesso», era la poesia con cui quella parola aspirante mi aveva sedotto. Vivere è un atto poetico. Vivere è ribellarsi liberamente alle abbaglianti uniformità dispiegate. Vivere vuol dire conoscere tutte le proprie potenzialità ed attuarle. Vivere è scegliersi. Scegliersi è un atto poetico. Vivere è un atto poetico. Da ripetere.

IV° movimento – Il profumo

Ma ancora soffrivo. La poesia mi aveva donato un nuovo rapporto con le parole, con la vista. Un nuovo stare tra cielo e terra. Ma non mi aveva affrancato. Erano poetici, ma erano pur sempre segni. Trappole per quell’occhio solitario. Stavo peggiorando velocemente: stavo ammalandomi. Ero bloccato, quasi radicato. Si producevano sul mio corpo ferite per lesioni da contatto con le parole. «Potrei andare oltre se solo qualcuno mi dicesse le cose giuste. Potrei completarmi integralmente se solo qualcuno mi indicasse una rotta». Mi laceravo con queste parole. Mi ferivo per la vicinanza di queste parole. Ma di li a poco, fu ancora seduzione. Toccò al profumo di una parola sedurmi. E la seduzione fu totale. Non potei sottrarmi a quel profumo: il profumo è fratello del respiro. Il profumo penetra: ad esso non si resiste se vuoi vivere. Ed in quel profumo compii il secondo sacrificio, resi sacro l’altro occhio. Mi lavai bene con acqua fresca. Provai a distendere i muscoli del braccio. Respira Gregor, respira. Cercai l’occhio con la mano; trattenni il fiato e con un gesto lo sfilai con risolutezza e consapevolezza. Sentii solo una goccia scivolare lenta e calda sino al labbro inferiore. Profumava. Preferii non asciugarla. Fu cecità. Finalmente il bagliore fu lacerato. Questa cecità, questa visione, questo abitare il vuoto, liberò spazio. Creò silenzio. Mi abbandonai fiducioso a quel profumo. Un profumo ricco di seduzione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non potei rifiutarne la forza. Mi penetrò come l’aria che respiravo: penetrò i miei polmoni, mi riempì, mi dominò totalmente. Non ci fu modo di opporvisi. Fu come lasciarsi condurre da un cavallo cieco che intuisce il vero. Spinto dall’impeto di questo sicuro cavallo cieco tirai e piegai per nove giorni consecutivi la superficie prendendo coscienza di tutte le mie potenzialità. C'era una benevolenza infinita in quel galoppo, c'erano tenerezza, commozione e la profondità vuota e sciocca di chi ama. Fu la leggerezza dell’abbandonarsi. Fu il profumo inebriante della consapevolezza. Fu il mio integrale completamento.
Respira desso Gregor, respira.

V° movimento – Epilogo. Ritornare

Adesso devo raccogliere tutto. Devo raccogliere il primo occhio. Devo ridonare corpo al mio corpo. Devo nuovamente fare voce in questo vuoto per poter essere cielo e terra. Per poter ripetere il vivere come atto poetico. Con consapevolezza. Recuperare anche l’altro occhio per rigettarmi e tornare nuovamente in quel presente da cui ero stato aspirato: non posso raggiungere l'individuazione, la mia piena realizzazione senza il senso di connessione con gli altri. Devo tornare allo stesso presente ed essere presente. Finché nuovamente qualcosa dispiegherà la mia superficie. E allora dovrà ritornare il cerchio: sarà la seduzione che mi sradicherà, che mi farà vorticare, che mi spingerà perché da un presente possa eternamente tornare ad un rinnovato presente. Alla ricerca dei miei limiti oltre i limiti imposti dal bagliore. Per poi ancora ritornare. Non possiamo raggiungere l'individuazione senza il senso di connessione con gli altri, e d'altro canto è impossibile avere rapporti veri con gli altri senza aver raggiunto l'individuazione: ecco l’eterno ritornare del presente.

Quando? Adesso. Dove? Sempre.

Gregor vi saluta,
con sapore.

.



Kai, questo te lo devo proprio.
Il racconto di come è nato questo piatto te lo devo come si deve un grazie.

Si chiama «Sanngetall», “che intuisce il vero”, che abita la tensione.

«Sanngetall» è uno degli appellativi di Odino, il dio della poesia. E la tensione era ciò che dovevamo raccontare quel giorno.
Lo dovevamo io, e i quattro della compagnia: pere, cicorielle selvatiche, pecorino, funghi cardoncelli.
Ci riunimmo e dissi loro che abitando la tensione avevo avuto un’intuizione. E di quell’intuizione una sua visione: avevo visto Odino, il dio della poesia, fare dono di un occhio per riceverla.
Non avevamo ancora una drammaturgia. Da questa immagine dovevamo partire: io per la regia; gli attori per costruire i personaggi.
Poi come al solito avremmo montato tutto insieme attuando le dovute modellazioni. Avremmo avuto la drammaturgia come risultato e non come premessa.
Ci annusammo e ci salutammo. Decidemmo di lasciar passare due giorni di reciproca solitudine.
Passarono i due giorni e tutti tornammo.
Ci annusammo calorosamente ed ognuno cominciò a condividere la proprio esperienza dell’abitare la tensione sotto la luce dell’intuizione che avevamo condiviso.
Le cicorielle selvatiche si presentarono mettendo in scena una vellutata. L’immagine della poesia e della tensione aveva creato in loro il desiderio di rotondità, quasi a compensare, quasi ad incrementare la differenza di potenziale con la loro spigolosità. Tensione tra rotondità e spigolosità. Si trattava innanzitutto per loro di raccogliersi insieme per raggiungere per lo meno il peso di 500g. Successivamente buona parte della loro azione ruotava sulle pratiche di pulizia e lavaggio. Riti di purificazione. Loro, le cicorielle si facevano pulire dalla terra che prima le aveva scaldate e adesso le accompagnava e si lasciavano lavare da mani sapienti. A quel punto, belle bagnate si tuffavano in poca acqua bollente, giusto il tempo di diventare morbide. Una veloce danza nel bicchiere di un minipimer per allentare le tensioni delle loro fibre e diventare cremose. Si sedettero per assistere all’azione degli altri.
Toccò ai cardoncelli che a loro volta si sono offrirono interpretando un classico del loro repertorio: i cardoncelli trifolati. Al momento non capii la scelta. Comunque si trattava di un movimento di 1 Kg di cardoncelli che attraverso il rito del lavaggio e della pulizia passando per la scomposizione della loro identità con l’aiuto di una lama li accompagnava in un'arena in cui aspettavano olio caldo, aglio e peperoncino. E questo chilogrammo di cardoncelli danzò sino a quando il suo essere non si fu intenerito. Anche questo personaggio messo in scena, come per le cicorielle, raccontava della tensione insita nel mutamento del proprio essere.
Pere e pecorino invece, essendo da poco andati a vivere insieme, portarono un lavoro a due. Scelsero di mettere in scena un dialogo, considerato da loro luogo di eccezione della tensione: tensione semantica, tensione emotiva, tensione che si risolve, tensione che si manifesta.
Lui, un bel pezzo di pecorino di mezza età che pesa 200g, decisamente terreno nel suo manifestarsi, dialogava romantico con una pera, truccata da Abate, inscenando anche un rapporto corporale di crudità naturale tra i loro corpi nudi. La tensione del corpo nel dialogo. Questo non ci convinceva molto. All’interno delle narrazioni proposte dagli altri risultava un po’ esterno. Ma che dialogassero lui, pecorino e lei, la pera, che dialogassero cielo e terra in un'unità che si proponeva per creare una ulteriore unità, ci piaceva. E ci convinceva.
Comunque decidemmo che alla fine il materiale c’era ed era anche di buon livello. Si prospettava un atto creativo dignitoso. Procedemmo.
Dovevamo montare il tutto modellando le parti che non fluivano. A quel punto si trattò solo di realizzare la scena. Attrezzisti, luciai, macchinisti: furono tutti convocati.
Farina integrale di farro e olio extravergine di oliva si unirono per creare una crema che accolse sul fuoco le cicorielle a crema offrendo loro una perfetta scenografia di rotondità.
Per il pecorino e la pera fu un po’ più complicato. Volevamo mantenere la loro idea di dialogo, ma nel contesto necessitavamo di renderlo in modo diverso. La tensione cielo-terra era quello che volevamo mantenere. La loro nudità doveva essere espressa in un contesto che mettesse in gioco anche un aspetto erotico e spostasse l’attenzione dalla immediatezza del corpo a quella della materia e dello spirito. Allora decidemmo di incaricare le uova di costruire insieme alla farina e all’olio un telaio che contenesse la pera ammorbidita dallo zucchero come un vivente contiene il cuore. Il risultato fu stupefacente. Il corpo possente del pecorino raccoglieva all’interno con una freschezza erotica il cuore morbido, struggente di una pera.

Ah! che meraviglia l’opera degli attrezzisti nelle cucine! Che incredibile lavoro di sostegno e materializzazione funzionale delle intuizione che svolgono.
Come Kai? Chi sono gli attrezzisti?
Le uova sono attrezzisti. E forse anche la farina? E lo zucchero? E che dire dell’olio extravergine di oliva? E dell’affaccendarsi continuo del forno e dei fornelli?
Questi sono pensieri che mi porterebbero via, Kai. Mi porterebbero lontano in un roteare di intuizioni ed emozioni. Ne parleremo la prossima volta. Adesso devo ritornare al racconto di quel giorno.

Mancava ancora un po’ di luce sulla scena.
Questo ci sembrò chiaro a tutti.
Furono i funghi cardoncelli a proporsi come creatori di una cupola che illuminasse la scena: adesso era chiaro perché si erano proposti in quella loro semplicità: lo avevano fatto per mettere nel gioco la tensione che l’abitare genera al contatto con l’abitudine, con il già visto. Chiesero solo che per evidenziare una luminosità che mancava, si potessero chiamare tre patate che, scomposte in piccoli fiammiferi e passate in olio bollente, si rendessero croccanti.
Si. Così ci piaceva. Così fluiva.
E così montammo lo spettacolo: sulla base della scodella la vellutata di cicorielle su cui si adagiava il tortino di pecorino dal cuore di pera che veniva custodito sul capo dai funghi trifolati e illuminato ancora più in alto dalla patata fritta.

La musiche nel piatto erano quelle di Barbara Strozzi

E andammo in scena. Quel giorno.

Il risultato lo hai vissuto, ed è stato come connettersi.

Ti abbracciamo tutti e ti ringraziamo per aver infuso in tutto questo lavoro l’energia di una vita resa felice per mezzo della condivisione.

Vivi felice.
Con sapore,
Biso

P.s.: Kai, anche Uri Caine e Paolo Fresu alla fine si sono occupati di Barbara Strozzi

Nessun commento:

Posta un commento