Che faccio? Ma proprio nelle mie reti si doveva infilare ‘sto coso?
Adesso che faccio? Devo decidermi, prima che arrivino gli altri.
Elend, devo partire. Ascoltami, non piangere, devo partire. Non voglio, ma devo partire. Diyar, Hejar e Samrend fra qualche mese non avranno più niente da mangiare. Elend, tu già fai miracoli per nutrirli. Non piangere. Non posso più restare qua: ho sentito dire che Bahoz e Helmet si sono venduti e spargono nausea e arroganza in tutto il villaggio. I nostri genitori ci stanno proteggendo, ma presto quei due mi saranno addosso e mi consegneranno alla milizia. E tu sai a quel punto la mia vita che valore avrebbe: carne da tortura. No, Elend, c’ho provato.
Ho provato a sopportare. Ho provato a pensare che tutto sarebbe finito. C’ho provato, Elend. Ma non ci sono riuscito. Non posso vedere morire i nostri figli per la fame; non posso nascondermi per sempre da fratelli corrotti. Non posso. Devo partire. Non tanto per me, Elend. Morirei qua per difendere la nostra libertà. Ma condannerei alla morte per fame te e i nostri figli, Elend. Smetti di piangere, Elend, e abbracciami. Fammi sentire il profumo della tua pelle, Elend. Baciami. Stai sorridendo. Sono felice di partire vedendoti finalmente sorridere. Tornerò, Elend. Te lo giuro. Tornerò con ciò che basta per una vita dignitosa. E intanto lavorerò e vi spedirò soldi. Tornerò. Adesso però, devo partire. Baciami ancora.
Ma proprio a me doveva succedere una cosa così? Che faccio? Che faccio con questo poveraccio. Ma proprio io dovevo incontrare ‘sto tizio morto cercando di vivere…
E magari è morto non solo per lui. Magari anche per altri: figli, mogli, genitori. Chissà chi ha lasciato a casa. Ma perché sei venuto da me? Ma perché? Devi avere attraversato il mare a bordo di qualche nave che puzza. Chissà quante persone devono aspettare tue notizie a casa. Ti devo portare a riva. Ti riconosceranno e avvertiranno i tuoi familiari. Che piangeranno. Ma almeno piangeranno un corpo. Ma ti riconosceranno in queste condizioni? Ma perché da me? Perché proprio a me?
Sono partito a bordo di una macchina, ho attraversato l’Iran fino al lago di Van. Poi un po’ a piedi e un po’ su di un camion, sono arrivato ad Istanbul. Poi ancora a piedi e su di un camion sono arrivato a Salonicco. Un treno mi ha portato ad Atene. Ho contrattato con i trafficanti un posto insieme ad altre undici persone su di una nave. Mi sono trovato con altre trentaquattro persone su di un gommone. Ci avevano tolto i documenti e poi abbandonati sulla costa. Non potevo tornare indietro. «Non avete altra scelta», ci dicono. In trentacinque su un gommone. Ho sete. Siamo partiti.
Ma cosa devo fare con te? eh?! Dimmelo! Cosa devo fare con te?
Anche io sono qua in mezzo al mare. Anche io sto cercando di vivere. Anche io sono in mezzo al mare non solo per me. Anche io sono qui per la mia famiglia.
Tutte le notti, verso le undici, mi avvio al molo. Ci sono due marinai ad aspettarmi. Saliamo sul mio piccolo peschereccio e salpiamo. La nave è quella che è: non ho soldi per cambiarla. Non ho soldi per cambiarla, mi hai capito? Non ho soldi. Esco fuori nel freddo della notte. Pesco. Pesco poco. Pesco oramai molto poco. E guadagno poco. Troppo poco. Anche io sono in mare cercando di vivere, caro mio. Io però devo stare in mare tutti i giorni. Cercando di vivere. Devo stare in mare non solo per me ma anche per la mia famiglia. Se resto a casa, è la fine. Ma perché sei venuto da me?
Lo faccio per voi. Diyar, Hejar, Samrend, Elend, voi avete creduto in me. Abbiamo venduto tutto a casa per recuperare i cinquemila dollari necessari al viaggio. È rimasta la capra, poco grano e la bontà dei vicini a sfamarvi. Adesso voi aspettate ansiosamente me e i miei soldi. Ve l’ho promesso: vado in Italia, lavoro e vi mando i soldi. Presto. Prestissimo. E tornerò. Con me sul gommone ci sono quattro anziani, tre donne e cinque bambini. Loro scappano solo dalla fame. Tutti gli altri, mi somigliano. Scappano anche dalla paura, dall’arroganza e dalla repressione. È notte, partiamo. Ho fame.
Devo portarti a riva, non solo per te, ma anche per la tua famiglia. E io devo stare in mare, non solo per me, ma anche per la mia di famiglia. Ma se ti porto a riva, che ne sarà di me? E se la guardia mi blocca la nave fino a quando non finiscono le indagini per capire chi sei? E se invece pensano che ti ho ucciso io? No, non ti posso portare a riva. Te l’ho detto, io devo stare in mare tutti i giorni. Tutti i santi giorni che la vita me lo permette, io devo stare in mare non solo per me, ma anche per la mia famiglia.
Si sta male qui sopra. Fa freddo. Ho sete. I bambini piangono e si sentono male. Le madri vorrebbero urlare ma il marinaio che ci controlla gli chiude la bocca con delle manate. Lo ucciderei, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Il pavimento del gommone è caldo di urina. Due bambini sono morti. Il marinaio li ha sollevati e gettati in mare. Le madri stanno urlando; il marinaio le spinge in mare. Non sentiamo già più le grida. Vorrei ucciderlo, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Morirei anche io qua solo nel deserto del mare. E voi, figli miei, morireste con me. Gli anziani non ce la fanno. Si lamentano. Svengono. Il marinaio ad uno ad uno li abbraccia, li solleva con le braccia sopra la sua testa e li getta in mare. Nessuno si oppone. Nessuno si lamenta. Lo uccideremmo, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Fa freddo. Non riesco a respirare bene. Forse è colpa del vento.
Non ti posso guardare. Sento di morire. Sento di fare qualcosa contro la vita. Sento di offendere il mare. Sento che i miei polmoni si stringono strizzandomi il cuore. Sento l’aria pietrificarsi nella mia gola. Sento di non riuscire a mandarla giù. Sento la nausea lacrimare dagli occhi. Sento i tuoi figli piangere un padre senza corpo. Sento i tuoi figli piangere per la fame. Sento la tua famiglia annegare impigliata in un’altra barca. E sento i miei figli aspettarmi a casa a bocca aperta gridando: pane!
Non mi sento bene. Mi gira tutto. Ho la fronte che brucia. Ho freddo. Mi viene voglia di vomitare. Le ginocchia si stanno piegando. Per un momento ho sentito il profumo della tua pelle Elend. L’ho sentito cavalcare l’unico refolo di vento caldo di tutto il viaggio. Vorrei sorridere, Elend, e invece alcune gocce salate stanno fuggendo dai miei occhi. E non sono mare. Le ginocchia non mi reggono. Non riesco a controllare gli occhi, Elend. Tutto si annebbia intorno a me. Ho paura, Elend. Ho paura. Ho paura per me. Ho paura per voi. Mi sento svenire. Mi sento morire. Ho paura di morire. Qualcuno mi sta abbracciando.
Ti chiedo perdono. Ti chiedo di dirmi che mi capisci. Ti chiedo di confessarmi che faresti lo stesso se tu fossi nei miei panni. I miei figli soffrirebbero, lo capisci? Lo capisci che la mia famiglia soffrirebbe se ti portassi a riva pensando ai tuoi? Eh, lo capisci? Ma dico io, ma con tutte le barche che girano per questo mare… con tutte le reti che setacciano questo mare… proprio da me dovevi venire? No. Ho deciso. No, non ti posso portare a riva. Non posso proprio. Adesso basta. Ora provo a prenderti. Che fatica abbracciarti per sollevarti. Chissà come dovevi essere prima. Certamente non eri così gonfio. Il mare ti ha dato un altro volto. Eppure mi pare di capire che sei un uomo per bene. Mi pare di immaginare al di là di questo gonfiore tutto viola che faccia hanno i tuoi figli. Al di là di questa faccia gonfia mi pare di intravedere i tuoi lineamenti e le mani di tua moglie carezzarli. Sto piangendo vedi? Io, sto piangendo. Io che ho le emozioni incrostate di salsedine, sto piangendo. Ma perché sei venuto da me? Eh? Perché? Basta! Ora ti abbraccio e ti tiro su.
Mi stanno sollevando verso le stelle. Diyar. Hejar. Samrend. Non ho potuto salvarvi. Il grano finirà. E finirà anche la bontà dei vicini esaurita dalla fame e dalla sopravvivenza. Morirete. Morirò. Elend, morirò. Adesso non sento più le braccia del marinaio sorreggermi. Mi sento sospeso, Elend. Sto piangendo, Elend. Elend! Sto per entrare in acqua e non ho le forze per nuotare. E anche se le avessi, dove andrei? Elend! Sto per toccare l’acqua. E morire. Ho cercato di vivere, figli miei. Ho cercato di farvi vivere figli miei. Vi amo, figli miei. Sto piangendo, Elend. Ho cercato di salvarti, Elend. Ma non ci sono riuscito. Addio figli miei. Addio Elend. Sento l’aria fredda della notte sospingermi in alto. Sto ricadendo. L’acqua si avvicina. Sento il mio corpo avvolto dall’acqua gelida. Addio Elend. Addio figli miei…
Hai fatto un tonfo sordo quando sei caduto nell’acqua. Sei troppo gonfio per affondare. Stai galleggiando. Abbi fede, qualcun’altro ti troverà. Adesso accendo i motori e manovro. Alle mie spalle c’è il sole che sorge. Davanti a me vedo già il porto. Ora scendo e vendo il pesce. Pago i due marinai. Un saluto alla guardia e vado a casa con il pane. Sto arrivando. Anche oggi papà sta arrivando. Buon appetito anche per oggi figli miei.
C’è un pescatore giù al porto. Avrà più o meno 50 anni. Arriva sempre quando sorge il sole. Ci vado a parlare spesso. Ha venduto tutto mi ha detto. Aveva una barca, vecchia ma funzionante. L’ha venduta. L’hanno comprata due marinai che lavoravano per lui. Non mi dice mai perché lo ha fatto. Non so se è per la fatica che la vita da pescatore richiede. Non me lo vuole dire. Io glielo chiedo e lui mi racconta di mare e di pesca. Mi parla della manutenzione delle reti. E mi dice di ricordarmi sempre della gioia e della fortuna che c’è nell’avere cibo. Della sacralità del cibo. Della miseria del non avere cibo. Dell’ingiustizia della fame. Poi tace e contempla silenzioso il sole che sorge. Dopo mezz’ora finisce di pescare tra i suoi pensieri, si volta verso di me e mi chiede: «Che lavoro fai ?». Gli dico che sono cuoco. Mi dà una pacca sulla spalla con quella sua mano incrostata dalla salsedine. E finalmente sorride. Allora mi racconta di quando anche lui disse a suo padre di voler fare il cuoco. Sognava di aprire una locanda. E vedeva sua moglie e i suoi figli dentro a lavorare con lui. Perché lui aveva sempre voluto avere tre figli. E tre figli aveva avuto. Ma il padre, pescatore, disse che sarebbe stato meglio portare avanti l’attività di famiglia e non mandare in malora quella barca comprata con tanto lavoro. Ci aveva riflettuto su e aveva deciso di continuare anche lui a fare il pescatore. Però una cosa l’aveva ottenuta: sulla nave del padre, era sempre lui che cucinava. Gli spettava di diritto. Era libero di cucinare quello che voleva. L’unico obbligo era usare tutto e solo il pesce che nessuno avrebbe comprato perché troppo poco gentile. «Il cibo è sacro. Il cibo è fatica. Il cibo è vita. Vita presa e vita data. È un sacrilegio per la terra, per l’aria e per il mare sprecarlo», diceva suo padre tutti i giorni mentre la nave lasciava la costa. E mi racconta di come lui per rendere giustizia a quel pesce ne facesse un brodetto. Lo faceva perché gli sembrava che fosse un piatto che richiedesse nella preparazione la sacralità della preghiera. E la preghiera, gli avevano insegnato, era il mezzo per rendere grazie a tutto ciò che è sacro. «E il cibo è sacro», mi ripeteva guardandomi negli occhi. Cominciava a selezionare il pesce: triglie, sgombri, rombi, cefali, cicale, spigolette, merluzzetti, pannocchie, calamari, seppie, sogliole, palombo, cappone. Lo separava per grandezza e per carni: ognuno aveva un suo differente tempo di cottura ed entrava a far parte del piatto in tempi diversi. Sempre per il solito precetto, tagliava i pesci più grandi in pezzi. Con le teste e le lische dei pesci più grandi, preparava un brodo che sobbolliva barcollando su di una cucinetta elettrica. Il segreto per lui stava nel far soffriggere teste e lische insieme a qualche carusella. La carusella, mi diceva, è il fiore del finocchio selvatico. La carusella, quello era il suo segreto. Solo quando le teste e le lische si erano dorate bene, solo allora aggiungeva acqua. E altri profumi a seconda dell’istinto del momento. Mentre il brodo di pesce sobbolliva, affettava una cipolla e la faceva rosolare nell’olio in un’altra padella. Poi, avendo avuto cura di non fare bruciare la cipolla, aggiungeva qualche pomodoro a pezzi, aglio e prezzemolo tritati e un cucchiaio di aceto diluito con un po’ di brodo di pesce. Questa dell’aceto l’aveva sentita raccontare da un pescatore di Ancona una volta che era venuto a trovare suo padre. E lasciava andare fino a che tutto l’alcool dell’aceto non fosse evaporato. Allora cominciava ad aggiungere i pezzi di pesce più grande e con carne più soda. Dopo alcuni minuti proseguiva aggiungendo tutti gli altri pesci in ordine decrescente di grandezza. E li faceva insaporire bene. Aggiunto tutto il pesce, lo copriva con il brodo filtrato con uno straccio di lino. Lasciava cuocere lentamente. Suo padre puntualmente a questo punto arrivava a controllare con quel suo naso giudice. Faceva un movimento di invito con le mani e tutto il vapore che saliva dalla pentola, si offriva al suo naso. Guardava compiaciuto e tornava alle reti. Il segreto di questo cibo stava tutto nella densità che lui riusciva ad ottenere: alla fine il brodetto era deciso come la volontà e vellutato come una carezza. Prendeva il pane raffermo portato da casa: guai gettarlo! È pane!, sacro, da non gettare nemmeno quando è vecchio. Nemmeno quando è duro. Lo prendeva, lo tagliava con fatica a fette e lo strusciava con uno spicchio d’aglio. Metteva il pane nelle ciotole e quando il brodetto era denso al punto giusto, lo scodellava sul pane. Denso al punto giusto, mi diceva, è quando riesce ad impregnare il pane senza per questo risultare acquoso: deciso e delicato. A vedere le facce di suo padre e dei marinai, diceva lui, pareva che questo cibo, caldo e preparato con lunga consapevole cura, ristorasse i loro corpi dalla fatica e liberasse dai vincoli le loro labbra che salivano in sorrisi. Magari anche solo per un attimo. E, sempre, come una litania, suo padre, per ringraziarlo, gli diceva guardando verso il mare: «chissà che ne sarebbe stato della tua vita se tu avessi fatto il cuoco». Finivano di mangiare e tutti , lui compreso, si rimettevano a lavorare con le reti. Alla fine aveva sempre scelto di fare il pescatore e non il cuoco.
Tutte le volte che vado a sedermi accanto a lui su quella panchina mi racconta esattamente questa solita storia. E non c’è dettaglio che cambi. Poi, dopo aver fatto silenzio e respirato al sole che si è alzato deciso all’orizzonte, se ne va sempre dicendomi: «Dovresti venire anche tu qualche mattina qui a salutare il sole che sorge». «Perché?», rispondo. «Perché in curdo il nome Elend vuol dire il sole che sorge». Poi si allontana dicendo: «Buon appetito anche per oggi, amico mio».
Non ho mai chiesto niente. Ho solo e sempre pensato che non si comprende mai abbastanza quanta umanità ci sia dietro al cibo.
Con sapore,
Biso
Adesso che faccio? Devo decidermi, prima che arrivino gli altri.
Elend, devo partire. Ascoltami, non piangere, devo partire. Non voglio, ma devo partire. Diyar, Hejar e Samrend fra qualche mese non avranno più niente da mangiare. Elend, tu già fai miracoli per nutrirli. Non piangere. Non posso più restare qua: ho sentito dire che Bahoz e Helmet si sono venduti e spargono nausea e arroganza in tutto il villaggio. I nostri genitori ci stanno proteggendo, ma presto quei due mi saranno addosso e mi consegneranno alla milizia. E tu sai a quel punto la mia vita che valore avrebbe: carne da tortura. No, Elend, c’ho provato.
Ho provato a sopportare. Ho provato a pensare che tutto sarebbe finito. C’ho provato, Elend. Ma non ci sono riuscito. Non posso vedere morire i nostri figli per la fame; non posso nascondermi per sempre da fratelli corrotti. Non posso. Devo partire. Non tanto per me, Elend. Morirei qua per difendere la nostra libertà. Ma condannerei alla morte per fame te e i nostri figli, Elend. Smetti di piangere, Elend, e abbracciami. Fammi sentire il profumo della tua pelle, Elend. Baciami. Stai sorridendo. Sono felice di partire vedendoti finalmente sorridere. Tornerò, Elend. Te lo giuro. Tornerò con ciò che basta per una vita dignitosa. E intanto lavorerò e vi spedirò soldi. Tornerò. Adesso però, devo partire. Baciami ancora.
Ma proprio a me doveva succedere una cosa così? Che faccio? Che faccio con questo poveraccio. Ma proprio io dovevo incontrare ‘sto tizio morto cercando di vivere…
E magari è morto non solo per lui. Magari anche per altri: figli, mogli, genitori. Chissà chi ha lasciato a casa. Ma perché sei venuto da me? Ma perché? Devi avere attraversato il mare a bordo di qualche nave che puzza. Chissà quante persone devono aspettare tue notizie a casa. Ti devo portare a riva. Ti riconosceranno e avvertiranno i tuoi familiari. Che piangeranno. Ma almeno piangeranno un corpo. Ma ti riconosceranno in queste condizioni? Ma perché da me? Perché proprio a me?
Sono partito a bordo di una macchina, ho attraversato l’Iran fino al lago di Van. Poi un po’ a piedi e un po’ su di un camion, sono arrivato ad Istanbul. Poi ancora a piedi e su di un camion sono arrivato a Salonicco. Un treno mi ha portato ad Atene. Ho contrattato con i trafficanti un posto insieme ad altre undici persone su di una nave. Mi sono trovato con altre trentaquattro persone su di un gommone. Ci avevano tolto i documenti e poi abbandonati sulla costa. Non potevo tornare indietro. «Non avete altra scelta», ci dicono. In trentacinque su un gommone. Ho sete. Siamo partiti.
Ma cosa devo fare con te? eh?! Dimmelo! Cosa devo fare con te?
Anche io sono qua in mezzo al mare. Anche io sto cercando di vivere. Anche io sono in mezzo al mare non solo per me. Anche io sono qui per la mia famiglia.
Tutte le notti, verso le undici, mi avvio al molo. Ci sono due marinai ad aspettarmi. Saliamo sul mio piccolo peschereccio e salpiamo. La nave è quella che è: non ho soldi per cambiarla. Non ho soldi per cambiarla, mi hai capito? Non ho soldi. Esco fuori nel freddo della notte. Pesco. Pesco poco. Pesco oramai molto poco. E guadagno poco. Troppo poco. Anche io sono in mare cercando di vivere, caro mio. Io però devo stare in mare tutti i giorni. Cercando di vivere. Devo stare in mare non solo per me ma anche per la mia famiglia. Se resto a casa, è la fine. Ma perché sei venuto da me?
Lo faccio per voi. Diyar, Hejar, Samrend, Elend, voi avete creduto in me. Abbiamo venduto tutto a casa per recuperare i cinquemila dollari necessari al viaggio. È rimasta la capra, poco grano e la bontà dei vicini a sfamarvi. Adesso voi aspettate ansiosamente me e i miei soldi. Ve l’ho promesso: vado in Italia, lavoro e vi mando i soldi. Presto. Prestissimo. E tornerò. Con me sul gommone ci sono quattro anziani, tre donne e cinque bambini. Loro scappano solo dalla fame. Tutti gli altri, mi somigliano. Scappano anche dalla paura, dall’arroganza e dalla repressione. È notte, partiamo. Ho fame.
Devo portarti a riva, non solo per te, ma anche per la tua famiglia. E io devo stare in mare, non solo per me, ma anche per la mia di famiglia. Ma se ti porto a riva, che ne sarà di me? E se la guardia mi blocca la nave fino a quando non finiscono le indagini per capire chi sei? E se invece pensano che ti ho ucciso io? No, non ti posso portare a riva. Te l’ho detto, io devo stare in mare tutti i giorni. Tutti i santi giorni che la vita me lo permette, io devo stare in mare non solo per me, ma anche per la mia famiglia.
Si sta male qui sopra. Fa freddo. Ho sete. I bambini piangono e si sentono male. Le madri vorrebbero urlare ma il marinaio che ci controlla gli chiude la bocca con delle manate. Lo ucciderei, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Il pavimento del gommone è caldo di urina. Due bambini sono morti. Il marinaio li ha sollevati e gettati in mare. Le madri stanno urlando; il marinaio le spinge in mare. Non sentiamo già più le grida. Vorrei ucciderlo, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Morirei anche io qua solo nel deserto del mare. E voi, figli miei, morireste con me. Gli anziani non ce la fanno. Si lamentano. Svengono. Il marinaio ad uno ad uno li abbraccia, li solleva con le braccia sopra la sua testa e li getta in mare. Nessuno si oppone. Nessuno si lamenta. Lo uccideremmo, ma poi chi ci condurrebbe a riva? Fa freddo. Non riesco a respirare bene. Forse è colpa del vento.
Non ti posso guardare. Sento di morire. Sento di fare qualcosa contro la vita. Sento di offendere il mare. Sento che i miei polmoni si stringono strizzandomi il cuore. Sento l’aria pietrificarsi nella mia gola. Sento di non riuscire a mandarla giù. Sento la nausea lacrimare dagli occhi. Sento i tuoi figli piangere un padre senza corpo. Sento i tuoi figli piangere per la fame. Sento la tua famiglia annegare impigliata in un’altra barca. E sento i miei figli aspettarmi a casa a bocca aperta gridando: pane!
Non mi sento bene. Mi gira tutto. Ho la fronte che brucia. Ho freddo. Mi viene voglia di vomitare. Le ginocchia si stanno piegando. Per un momento ho sentito il profumo della tua pelle Elend. L’ho sentito cavalcare l’unico refolo di vento caldo di tutto il viaggio. Vorrei sorridere, Elend, e invece alcune gocce salate stanno fuggendo dai miei occhi. E non sono mare. Le ginocchia non mi reggono. Non riesco a controllare gli occhi, Elend. Tutto si annebbia intorno a me. Ho paura, Elend. Ho paura. Ho paura per me. Ho paura per voi. Mi sento svenire. Mi sento morire. Ho paura di morire. Qualcuno mi sta abbracciando.
Ti chiedo perdono. Ti chiedo di dirmi che mi capisci. Ti chiedo di confessarmi che faresti lo stesso se tu fossi nei miei panni. I miei figli soffrirebbero, lo capisci? Lo capisci che la mia famiglia soffrirebbe se ti portassi a riva pensando ai tuoi? Eh, lo capisci? Ma dico io, ma con tutte le barche che girano per questo mare… con tutte le reti che setacciano questo mare… proprio da me dovevi venire? No. Ho deciso. No, non ti posso portare a riva. Non posso proprio. Adesso basta. Ora provo a prenderti. Che fatica abbracciarti per sollevarti. Chissà come dovevi essere prima. Certamente non eri così gonfio. Il mare ti ha dato un altro volto. Eppure mi pare di capire che sei un uomo per bene. Mi pare di immaginare al di là di questo gonfiore tutto viola che faccia hanno i tuoi figli. Al di là di questa faccia gonfia mi pare di intravedere i tuoi lineamenti e le mani di tua moglie carezzarli. Sto piangendo vedi? Io, sto piangendo. Io che ho le emozioni incrostate di salsedine, sto piangendo. Ma perché sei venuto da me? Eh? Perché? Basta! Ora ti abbraccio e ti tiro su.
Mi stanno sollevando verso le stelle. Diyar. Hejar. Samrend. Non ho potuto salvarvi. Il grano finirà. E finirà anche la bontà dei vicini esaurita dalla fame e dalla sopravvivenza. Morirete. Morirò. Elend, morirò. Adesso non sento più le braccia del marinaio sorreggermi. Mi sento sospeso, Elend. Sto piangendo, Elend. Elend! Sto per entrare in acqua e non ho le forze per nuotare. E anche se le avessi, dove andrei? Elend! Sto per toccare l’acqua. E morire. Ho cercato di vivere, figli miei. Ho cercato di farvi vivere figli miei. Vi amo, figli miei. Sto piangendo, Elend. Ho cercato di salvarti, Elend. Ma non ci sono riuscito. Addio figli miei. Addio Elend. Sento l’aria fredda della notte sospingermi in alto. Sto ricadendo. L’acqua si avvicina. Sento il mio corpo avvolto dall’acqua gelida. Addio Elend. Addio figli miei…
Hai fatto un tonfo sordo quando sei caduto nell’acqua. Sei troppo gonfio per affondare. Stai galleggiando. Abbi fede, qualcun’altro ti troverà. Adesso accendo i motori e manovro. Alle mie spalle c’è il sole che sorge. Davanti a me vedo già il porto. Ora scendo e vendo il pesce. Pago i due marinai. Un saluto alla guardia e vado a casa con il pane. Sto arrivando. Anche oggi papà sta arrivando. Buon appetito anche per oggi figli miei.
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C’è un pescatore giù al porto. Avrà più o meno 50 anni. Arriva sempre quando sorge il sole. Ci vado a parlare spesso. Ha venduto tutto mi ha detto. Aveva una barca, vecchia ma funzionante. L’ha venduta. L’hanno comprata due marinai che lavoravano per lui. Non mi dice mai perché lo ha fatto. Non so se è per la fatica che la vita da pescatore richiede. Non me lo vuole dire. Io glielo chiedo e lui mi racconta di mare e di pesca. Mi parla della manutenzione delle reti. E mi dice di ricordarmi sempre della gioia e della fortuna che c’è nell’avere cibo. Della sacralità del cibo. Della miseria del non avere cibo. Dell’ingiustizia della fame. Poi tace e contempla silenzioso il sole che sorge. Dopo mezz’ora finisce di pescare tra i suoi pensieri, si volta verso di me e mi chiede: «Che lavoro fai ?». Gli dico che sono cuoco. Mi dà una pacca sulla spalla con quella sua mano incrostata dalla salsedine. E finalmente sorride. Allora mi racconta di quando anche lui disse a suo padre di voler fare il cuoco. Sognava di aprire una locanda. E vedeva sua moglie e i suoi figli dentro a lavorare con lui. Perché lui aveva sempre voluto avere tre figli. E tre figli aveva avuto. Ma il padre, pescatore, disse che sarebbe stato meglio portare avanti l’attività di famiglia e non mandare in malora quella barca comprata con tanto lavoro. Ci aveva riflettuto su e aveva deciso di continuare anche lui a fare il pescatore. Però una cosa l’aveva ottenuta: sulla nave del padre, era sempre lui che cucinava. Gli spettava di diritto. Era libero di cucinare quello che voleva. L’unico obbligo era usare tutto e solo il pesce che nessuno avrebbe comprato perché troppo poco gentile. «Il cibo è sacro. Il cibo è fatica. Il cibo è vita. Vita presa e vita data. È un sacrilegio per la terra, per l’aria e per il mare sprecarlo», diceva suo padre tutti i giorni mentre la nave lasciava la costa. E mi racconta di come lui per rendere giustizia a quel pesce ne facesse un brodetto. Lo faceva perché gli sembrava che fosse un piatto che richiedesse nella preparazione la sacralità della preghiera. E la preghiera, gli avevano insegnato, era il mezzo per rendere grazie a tutto ciò che è sacro. «E il cibo è sacro», mi ripeteva guardandomi negli occhi. Cominciava a selezionare il pesce: triglie, sgombri, rombi, cefali, cicale, spigolette, merluzzetti, pannocchie, calamari, seppie, sogliole, palombo, cappone. Lo separava per grandezza e per carni: ognuno aveva un suo differente tempo di cottura ed entrava a far parte del piatto in tempi diversi. Sempre per il solito precetto, tagliava i pesci più grandi in pezzi. Con le teste e le lische dei pesci più grandi, preparava un brodo che sobbolliva barcollando su di una cucinetta elettrica. Il segreto per lui stava nel far soffriggere teste e lische insieme a qualche carusella. La carusella, mi diceva, è il fiore del finocchio selvatico. La carusella, quello era il suo segreto. Solo quando le teste e le lische si erano dorate bene, solo allora aggiungeva acqua. E altri profumi a seconda dell’istinto del momento. Mentre il brodo di pesce sobbolliva, affettava una cipolla e la faceva rosolare nell’olio in un’altra padella. Poi, avendo avuto cura di non fare bruciare la cipolla, aggiungeva qualche pomodoro a pezzi, aglio e prezzemolo tritati e un cucchiaio di aceto diluito con un po’ di brodo di pesce. Questa dell’aceto l’aveva sentita raccontare da un pescatore di Ancona una volta che era venuto a trovare suo padre. E lasciava andare fino a che tutto l’alcool dell’aceto non fosse evaporato. Allora cominciava ad aggiungere i pezzi di pesce più grande e con carne più soda. Dopo alcuni minuti proseguiva aggiungendo tutti gli altri pesci in ordine decrescente di grandezza. E li faceva insaporire bene. Aggiunto tutto il pesce, lo copriva con il brodo filtrato con uno straccio di lino. Lasciava cuocere lentamente. Suo padre puntualmente a questo punto arrivava a controllare con quel suo naso giudice. Faceva un movimento di invito con le mani e tutto il vapore che saliva dalla pentola, si offriva al suo naso. Guardava compiaciuto e tornava alle reti. Il segreto di questo cibo stava tutto nella densità che lui riusciva ad ottenere: alla fine il brodetto era deciso come la volontà e vellutato come una carezza. Prendeva il pane raffermo portato da casa: guai gettarlo! È pane!, sacro, da non gettare nemmeno quando è vecchio. Nemmeno quando è duro. Lo prendeva, lo tagliava con fatica a fette e lo strusciava con uno spicchio d’aglio. Metteva il pane nelle ciotole e quando il brodetto era denso al punto giusto, lo scodellava sul pane. Denso al punto giusto, mi diceva, è quando riesce ad impregnare il pane senza per questo risultare acquoso: deciso e delicato. A vedere le facce di suo padre e dei marinai, diceva lui, pareva che questo cibo, caldo e preparato con lunga consapevole cura, ristorasse i loro corpi dalla fatica e liberasse dai vincoli le loro labbra che salivano in sorrisi. Magari anche solo per un attimo. E, sempre, come una litania, suo padre, per ringraziarlo, gli diceva guardando verso il mare: «chissà che ne sarebbe stato della tua vita se tu avessi fatto il cuoco». Finivano di mangiare e tutti , lui compreso, si rimettevano a lavorare con le reti. Alla fine aveva sempre scelto di fare il pescatore e non il cuoco.
Tutte le volte che vado a sedermi accanto a lui su quella panchina mi racconta esattamente questa solita storia. E non c’è dettaglio che cambi. Poi, dopo aver fatto silenzio e respirato al sole che si è alzato deciso all’orizzonte, se ne va sempre dicendomi: «Dovresti venire anche tu qualche mattina qui a salutare il sole che sorge». «Perché?», rispondo. «Perché in curdo il nome Elend vuol dire il sole che sorge». Poi si allontana dicendo: «Buon appetito anche per oggi, amico mio».
Non ho mai chiesto niente. Ho solo e sempre pensato che non si comprende mai abbastanza quanta umanità ci sia dietro al cibo.
Con sapore,
Biso
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