Non
è intuitivo.
Non
è intuitivo capire la cosmologia di una comunità.
Nemmeno
capirne i modi dell’abitudine.
Non
lo è capirne gli odori.
Questo
pensavo di fronte alla scapece. Mi risulta veramente difficile il sapore della
scapece.
Eppure
da quando sono arrivato, si è posto lì, davanti, monolitico. Definitivo. Me ne
hanno sempre parlato come di una forma della prelibatezza. O meglio di una
identità. Sembra essere uno di quei cibi che fanno comunità. Che designano una
tradizione. E me ne hanno sempre parlato con bocche salivanti.
Per
me, immigrato di oggi, ha il sapore del dogma.
Ma
non può essere così. Troppe bocche continuano a parlarne. Ed allora viene da
pensare che c’è qualcosa nel sapore che non va. Viene il dubbio che il sapore
non sia più quello.
Ma
perché non dovrebbe esserlo? sono cambiati i modi di preparazione? È cambiata
la qualità degli ingredienti? È cambiata la comunità che lo mangia?
Non
è intuitivo capirlo.
Il
gusto è chiaramente un sensazione olistica. Una di quelle sensazioni fatte di
biologia e memoria.
Una
memoria che non è intuitivo condividere. È una memoria fatta di cosmologia;
ritualità; relazioni; metodi di conservazione dei cibi. E biologia.
Forse
la comunità che lo ha realizzato era usa al sapore pungente e dominante dell’aceto.
Aceto per conservare. Forse era una comunità il cui rumore di fondo aveva anche
il sapore dell’aceto. Rumore che alla fine, assolto per mezzo dell’abitudine,
diventa silenzio. E in quel silenzio ci sono anche l’abitudine ai modi del
divino. Alle cosmogonie. Ai quotidiani odori del corpo. Ai tipi di recipienti a disposizione per
conservare gli alimenti. Alle musiche. Alle lotte. Alle terre. A qualche forma
di paura della fame.
Quante
cose ci sono nel silenzio della scapece? E non è intuitivo abitarle tutte.
Che
ci fa lo zafferano in quel silenzio? Gli arabi, mi si dice.
C’è
ancora troppo rumore per me, immigrato di oggi, nel sapore della scapece.
Non
è intuitivo abitare il sapore della scapece.
Non
è intuitivo abitare una tradizione.
Tradere
è istintivo.