I popoli romanì a
forza di essere nomadi si obbligano e si dispongono agli incontri; il Salento a
forza di essere Mediterraneo aggrappato alle rocce d’Europa si è obbligato e si
è disposto all’attraversamento, al limitare e alla commistione. C’è una sorta
di complementarietà in questo disporsi: c’è da una parte l’invito al cammino,
all’essere vento e dall’altra l’invito a
farsi attraversare, al lasciarsi segnare.
E alla fine è come un invito al vento quello che si respira: c’è
l’invito romanì a sciogliersi come vento e inseguire l’altrove anche quando il
battere è lento e radicato; c’è l’invito salentino ai venti densi di brandelli
di altrove a lasciarsi irretire, rallentare e condensare prima che si possano
dissolvere.
.
È
stato un pomeriggio di allegra convivialità: trascorrere alcune ore a parlare
di cucina con le signore della comunità rom-salentina di muro Leccese è stato
piacevole. Il loro parlare musicale viaggiava senza posa tra ricordi di feste
danzanti apparecchiate intorno a grandi tavolate contrappuntati da
disquisizioni su “stanati” di parmigiana di melanzane al forno; tra gridolini
di eccitazione per l’evocazione di un sapore oramai dimenticato; tra occhi
sorpresi dall’interesse di “uno del nord” per le usanze, i colori, i profumi e
le storie di persone che vivono in un sud percepito lontano; tra il clangore di
clamorose eclettiche clausure sfuggite claudicando per l’affaticamento delle
consuetudini climatiche; tra i sospiri di una rassegnazione che ha le tonalità
cromatiche di un destino; tra quel sorriso dietro gli occhi che annuncia
chiaramente che il destino è lievito.
È
in un pomeriggio come questo che mi è stato fatto dono da queste imponenti e
contegnose madri delle famiglie rom-salentine della ricetta dei pezzetti di
cavallo al sugo. E se mi trovo adesso a raccontarla è perché da quelle famiglie
mi è venuta una richiesta esplicita di rendere questo dono nomade: mi è stato
chiesto di sradicare questo sapore e di portarlo in giro, là,ovunque incontri
vite in grado di condividerlo e assaporarlo.
C’è
durezza e sofferenza nel dover raccontare un piatto che abbia come cuore parti
di un animale. Ma in contesti come quello in cui è nata questa ricetta, non si
è mai trattato di scelte etiche o morali. Si è trattato innanzitutto di
sopravvivenza. E poi, ma solo poi, commercio.
Non
è il caso, né quel pomeriggio né adesso, di attraversare pensieri come questo
che porterebbero molto lontano. Solo mi sento di dire che mai ho avvertito
durante il nostro colloquiare di cibo, quel senso di irrispettoso specismo che
fa sussultare e che spinge verso scelte alimentari basate su valori etici.
La
dignità dell’animale, il rispetto nei suoi confronti, l’essere parte di una
relazione naturale comune è sempre risuonato sullo sfondo. Per questo non mi
sono sentito sacrilego. Anzi, ho avvertito come una sorta di sacralizzazione.
L’animale
scelto per questo rito era sempre un cavallo anziano e molto vicino alla fine
della sua vita. Veniva macellato e nel racconto di questo mi è arrivato forte
il senso del sacrificio inteso nel suo significato etimologico di “rendere
sacro”: come se si volesse innalzare e rendere saldo e viscerale il rapporto
che si era instaurato.
Racconto
senza giudizio.
La
carne poi veniva fatta bollire in acqua con alloro e sale schiumando ogni volta
che era necessario. Sobbolliva nell’acqua aromatizzata fino a quando pungendola
con una forchetta, questa non penetrava con una certa disinvoltura nella carne.
Oggi diremmo sino a metà cottura.
A
quel punto la si toglieva dall’acqua che però veniva conservata per terminare eventualmente
la cottura. In un tegame veniva scaldato dell’olio in cui si faceva rosolare
aglio e cipolla. Quando quest’ultima era appassita ed imbiondita, sia aggiungeva
un poco di peperoncino “amaro”. Poi toccava ai pezzetti di carne che venivano
fatti rosolare in questo olio sino a che non acquisivano screziature ambrate. A
quel punto vino a sfumare, preferibilmente bianco. Adesso era il momento di
aggiungere sugo di pomodoro
rigorosamente cotto precedentemente sobbollendo almeno quattro ore.
A
fuoco basso si lasciava la carne di cavallo cuocere per almeno un’altra ora e
mezza. Se il liquido di cottura si assorbiva troppo, si aggiungeva mano a mano
l’acqua di bollitura della carne che era stata messa da parte in precedenza.
A
fine cottura il tegame veniva portato sul tavolo ed accolto da tutta la
famiglia, la larga famiglia rom-salentina, riunita intorno alla grande tavolata
per fare festa, per rendere sacro il giorno. E così ricominciava quel parlare
musicale, quei gridolini di eccitazione. E poi vino. E poi musica. E poi danze.
Nella
sacralità del rispetto c’è anche la non quantificazione delle dosi: non c’è
spersonalizzazione nella tradizione. Si è prima della codificazione. Si è
ancora in quell’ambito in cui la relazione con la presenza, la consapevolezza
dell’atto rituale che si va compiendo definisce l’agire. Si è ciò che si fa al
di là di codici oggettivizzanti.
Viene
da sé che questo non è mai stato nella tradizione rom-salentina una piatto
“tradizionale” nell'accezione dell'essere consumato tutti i giorni: era un sacrificio
e quindi era un rito occasionale, legato ai tempi della vita e del convivere.
Anche questo deve essere detto. Anche questo deve fare riflettere.
pubblicato su Il Paese Nuovo del 24 giugno 2012
pubblicato su Il Paese Nuovo del 24 giugno 2012